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Pop&Sports – Dal “Black Lives Matter” all’NBA: cosa sta accadendo a livello socio-culturale

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Lo si dice spesso quando nel globo succede qualcosa di inusuale, particolare: “Questo è un pazzo pazzo mondo”. Ma questo non è inusuale, e non è particolare. Il razzismo c’è da l’alba dei tempi. La lotta contro la discriminazione razziale c’è da molto tempo ed è una guerra che tutt’ora si combatte, ovunque. In questi mesi si è parlato molto della lotta al razzismo. Gli americani dicono basta, basta all’odio verso le altre persone in una terra di opportunità, di libertà, che poi tanto libera non è. 

George Floyd, afroamericano di 46 anni, è morto il 25 maggio 2020 quando Derek Chauvin, ufficiale di polizia bianco, si è inginocchiato sul suo collo per 8 minuti e 46 secondi, a Minneapolis. Floyd giaceva ammanettato e a faccia in giù sulla strada, mentre ripeteva, con voce via via sempre più roca: “I can’t breathe / Non respiro”. L’ennesimo atto di violenza razziale, l’ennesimo abuso di potere verso le persone di colore non poteva passare inosservato. 

In una terra già martoriata dal Covid-19, folle di manifestanti inneggiano lo slogan “Black Lives Matter / Le vite dei neri contano”. Questa frase, che si sente e si vede principalmente da quest’anno, con gli ultimi avvenimenti, in realtà è un movimento attivista a livello internazionale, impegnato nella lotta contro il razzismo a livello socio-politico, nato nel 2013 da 3 attiviste afroamericane. 

Nella lotta, questa volta, si impegnano tutti, banchi o neri che siano. Basta con questa violenza gratuita, basta con queste atrocità da tempo della segregazione. Con tutti, iniziano a partecipare anche alcune istituzioni, tra cui quelle sportive: MLS, MLB e la NBA. Soprattutto la NBA, perché in una istituzione dove il 75% del suo parco giocatori è afroamericano, o di colore, non possono passare inosservate queste proteste. Anche perché, in queste manifestazioni, ci partecipano anche gli stessi giocatori: prima del ritorno sui campi da basket, atleti come Jaylen Brown dei Boston Celtics e Malcolm Brogdon degli Indiana Pacers, vicepresidenti dell’associazione giocatori NBA, avevano guidato diverse proteste pacifiche inneggianti al movimento “Black Lives Matter”.

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Il 30 luglio si è ritornati a giocare in campo, in un modo un po’ particolare: il campionato è ripartito da Orlando, nella “bolla” di Disney World, con l’ingresso nel campus di Topolino a metà mese. Oltre  alla “bolla” e alla pandemia, a renderlo particolare è stato anche il periodo socio-culturale: la NBA non si è fermata solo a dire parole al miele per i giornali, ma ha dimostrato al mondo che l’istituzione internazionale del basket era contraria al razzismo, dando modo ai giocatori di continuare a manifestare anche da lontano. In che modo? Sul parquet lo slogan “Black Lives Matter”, così come nel retro delle canotte di ogni squadra, insieme ad altri slogan del tipo “Justice Now / Giustizia Adesso” e “Equality / Uguaglianza”. Senza contare le varie forme di espressione che i singoli giocatori portano sul campo, come le scritte sulle scarpe e indossare sempre la maglietta nera con lo slogan. Anche gli allenatori vestono le polo delle loro squadre, con una targhetta al petto con su scritto “Racial Justice / Giustizia Razziale”. 

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Sinora era bastato. Poi l’ultima delle barbarie, il 23 Agosto: il video ha fatto il giro del mondo via social network e i giocatori hanno deciso che “basta” era più che un semplice slogan sulle canotte. Domenica 23 agosto a Kenosha, nel Wisconsin, un 29enne afroamericano è stato ferito alla schiena da ripetuti colpi d’arma da fuoco da poliziotti intervenuti per risolvere una lite familiare, tra due donne, secondo quello riportato dai parenti. Ora è paralizzato dalla vita in giù, per la testimonianza del padre. I tre figli dell’uomo ferito sarebbero stati all’interno dell’auto verso la quale è stato aperto il fuoco, proprio mentre lui stava entrando nel Suv. Colpito alle spalle. La sparatoria è stata filmata da un telefonino e la scena è stata diffusa sui social network, provocando altra rabbia e frustrazione

Lo sdegno è arrivato anche fino in Florida e ad un’altro episodio di abuso di potere e razzismo, anche mentre il Paese è già in rivolta proprio contro questo, i giocatori non potevano stare inermi a Orlando, nella loro “bolla”. Il 26 agosto, prima della partita Milwaukee Bucks – Orlando Magic, i giocatori decidono di scioperare, rimandando la partita di playoff a data da destinarsi. Seppur sembri roba da poco, questo è un evento importante nella storia della sport mondiale: in un mondo sportivo dove i giocatori ostentano ricchezze, uno sciopero che blocca una partita di playoff, importante per la corsa al titolo, fa pensare a come abbiano lasciato da parte il bene materiale per mettersi a servizio del bene comune, manifestando. Questo fa di loro persone, prima di cose. E non è un pensiero da poco, visto che lo sport moderno, dal Basket al Calcio, ha trasformato le persone in oggetti di scambio per profitti. 

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Comunque, il “boicottaggio” del 26 agosto, così chiamato dalla stampa in modo erroneo, come sottolinea LeBron James, ha lanciato con se una serie di eventi: dallo sciopero di Kenny Smith, commentatore sportivo di TNT che ha lasciato lo studio dopo aver detto un suo pensiero a riguardo, alla marcia degli arbitri in solidarietà dei giocatori e alla protesta di George Hill, veterano dei Milwaukee Bucks, che è rimasto nei corridoi durante l’esecuzione dell’inno americano. Inoltre, il blocco della gara tra Bucks e Magic ha portato al boicottaggio, di qualche giorno, di tutte le partite NBA, oltre a fermare pure la WNBA, la MLS, la MLB e il torneo di tennis Western & Southern Open di New York, che ha deciso di prendersi una giornata di stop. 

Questi eventi sono a dimostrazione di come la gente sia stufa della discriminazione socio-culturale che, ancora oggi, permane nello Stato più potente del mondo. Gli atleti sono passati da manichini e oggetti di valore a persone vere, modelli a tutto tondo da seguire e da prendere come esempio. 

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