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Leonardo Vicari a ‘1000 Cuori’: “Domenica vale più di uno scudetto”

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Alla vigilia di Fortitudo-Cantù, sfida decisiva per la permanenza dell’Aquila in serie A, ‘1000 Cuori’ ha raggiunto Leonardo Vicari, giornalista, scrittore, speaker radiofonico e grande tifoso fortitudino.

Leonardo, prima di tutto raccontaci come nasce il tuo tifo per la Fortitudo…

“Mio padre mi portò al palazzo quando ancora c’erano i gradoni e in qualcuno c’erano le panche. La capienza poteva essere 7.000 persone, ma c’era molte più persone, te lo assicuro. Io ero piccolo non capivo nulla, vedevo questa squadra con la maglietta rossa versione Yoga e mi ricordo quando tutti si misero a battere i piedi. Il mio primo ricordo è quello. Ricordo anche che vincemmo quella partita, molto tirata, contro una big, anche se non ricordo quale. Un paio d’anni dopo mi viene chiesto se fare l’abbonamento, e io accordai. E così mi appassionai di quella squadretta che non vinceva mai. Così quando vinceva, ero doppiamente felice… Ricordo che nel 1993, quando salimmo in A, iniziammo bene, le vincevamo quasi tutte. Quando facevamo canestro da tre io ritenevo addirittura che ci fossimo imborghesiti, perché quando negli anni precedenti non ne mettevamo uno, la gente era ancor più felice quando accadeva”

Qual è la “tua” Fortitudo?

“Quella, con gli Esposito, i Fumagalli, gli Aldi, i Pezzin. E probabilmente quella del 2016 della finale con Brescia. Io pesco nella identità. Certo che mi interessa lo scudetto, non voglio fare quello che deve distinguersi. Però vincere gara-4 con Brescia è stata una emozione di vita più grandi che ho avuto”

Quanto ha influito l’assenza del pubblico quest’anno?

“Vado un po’ controcorrente. Nel mondo dello sport ogni tanto ci imbeviamo talmente tanto di retorica che rischiamo di annegare. Il pubblico è mancato a tutti. A noi, se mi è concesso, è mancato il  nostro pubblico, ma soprattutto vederlo in scena al Pala Dozza. La Unipol Arena, con tutto il rispetto per la bellissima opera che è per Bologna, non è casa nostra”.

Domenica arriva Cantù. Passami la battuta, quasi come giocarsi uno scudetto, no?

“E’ addirittura più importante di uno scudetto. Riflettiamoci: se lo scudetto lo perdi, non cambia nulla alla tua condizione. Questa partita qua, chi la perde, vede cambiare la propria condizione. Quando io sento i tesserati dello sport dire ‘da oggi tutte finali’, non lo capisco. Perché perdere le finali ti cambia poco. Sarebbe meglio dire ‘sono tutti spareggi per non retrocedere’…”

Qual è secondo te il maggior scoglio che ha dovuto affrontare la Fortitudo quest’anno?

“Se io penso che una delle ultime otto squadre, tra 18 giorni è nei playoff scudetto, io penso che tutte quelle 8 squadre siano state costruite male. Colpa del covid, degli errori tecnici, del regolamento che ti permette da un giorno all’altro di stravolgere la squadra. Ma per esempio, Reggio è salva, ma è per caso più forte di noi? Se noi ci salviamo, devo dire che siamo nettamente più forti di Cantù? Non direi, arriviamo due punti sopra di loro. Insomma, noi abbiamo fatto l’errore più grande nel far affrontare le partite a giocatori non abituati a lottare per la salvezza. Hanno giocato male in campionato, per colpa della scelta dell’allenatore ma anche per colpa loro. Il pedigree di quei giocatori non è quello di cercare di salvarsi. In più aggiungiamo la sfortuna e l’assenza di Wesley Sunders. Se avesse giocato sin dall’inizio, avremmo 4 punti in più tranquillamente”.

Sacchetti prima, Dalmonte dopo. Cosa ne pensi di questo avvicendamento e quanto ha influito sulle sorti fortitudine?

“Venivamo da anni in cui non sbagliavamo un colpo. Sbagliare così tanto in una volta sola, esula dal fatto di cambiare semplicemente l’allenatore. Non siamo stati più certi di quello che avevamo fatto prima. Se fosse solo questione di allenatore, lo cambi, e un coach sa bene come funziona il suo mestiere. Con Sacchetti si è indugiato un po’ troppo con la fiducia, con una panchina che non c’era e il rigurgito di certi errori si è rovesciato soprattutto su certi finali di partita. Ci siamo trovati a giocare in sei giocatori e mezzo, e se tu hai 24 punti in classifica è un conto, giochi con una testa; ma se tu sei reduce da così tante sconfitte, è dura tirar fuori ciò che tiravamo fuori gli anni scorsi”

In questi giorni si è dibattuto della Superlega, spesso accostata alla NBA o alla Eurolega.

“E’ un tema che mi appassiona molto poco. Non c’è una estrazione che un giorno ti rende una persona che fa un mestiere e il giorno dopo vieni obbligato a entrare nella pallacanestro. Chi entra nel basket sa come funziona, o non funziona, il sistema. E’ come nel calcio: vedo certi presidenti entrarci e poi si stupiscono di trovarlo diverso da come lo immaginavano. Il basket funziona poco da un punto di vista organizzativo, con un campionato che da due anni è dispari, però la situazione è questa ora. Il coraggio di far giocare i giovani è giusto, ma hai il coraggio di retrocedere? Io i giovani li faccio giocare se sono buoni. Se tu fai giocare un ragazzo oggi, ma domani non è cresciuto abbastanza, gli hai rovinato la carriera. Gli hai fatto credere che fosse un giocatore di basket, e domani lui non troverà più un contratto. Io credo che conti ancora molto avere il giocatore bravo più che il giocatore giovane”.

 

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