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MONDAY NIGHT: Storia a puntate del calcio in Italia #03 – Tra diavoli e cittadini del mondo: a Milano è tempo di fólbal

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Continua la nostra storia del calcio a puntate in Italia. Eccoci alla nascita del football a Milano, prima città a rompere il duopolio Torino-Genova.

1^ puntata: Genoa VS Rappresentanza Torino, 6 gennaio 1898

2^ puntata: Campionato Nazionale di Football 1898


18 ottobre 1908, “Coppa Chiasso”, Campo del Gas – Chiasso (SVI)

Milan – Inter = 2-1

Mentre il calcio da noi aveva appena visto la luce, in Inghilterra era già da oltre un decennio una cosa maledettamente seria: sul finire del diciannovesimo secolo nascevano quelle che sarebbero state le più grandi squadre del Paese, rappresentanti città colme di appassionati entusiasti che riempivano gli stadi appositamente costruiti per il football professionistico. I più grandi campioni erano stelle riconosciute, i negozi di articoli sportivi esibivano palloni, scarpette da calcio, maglie sempre più rifinite ed eleganti.

Da noi, invece, tutto restava ancorato all’epoca dei pionieri, in parte perché il gioco doveva ancora diffondersi e fare presa sulla popolazione locale e in parte perché il retaggio e la cultura che avevano del football quelli che lo avevano portato in Italia si rifaceva ad antichi miti che ormai in Inghilterra erano stati superati. Herbert Kilpin non era un nobile, né aveva studiato nelle prestigiose public schools dove il Field Game era diventato football. Uno dei nove figli di un macellaio di Nottingham, aveva studiato per lavorare in tessitura, e aveva da tempo riposto nel cassetto il sogno di diventare un calciatore professionista quando conobbe Edoardo Bosio, che si trovava in Inghilterra per uno stage formativo. Quello che fece comunicare per la prima volta questi due storici personaggi, probabilmente, fu più la passione comune per il prendere a calci un pallone che il lavoro, ma fu senz’altro per questo motivo che Kilpin giunse poco più che ventenne a Torino nel 1891: inizialmente il suo compito sarebbe stato quello di insegnare ai dipendenti italiani di Bosio l’utilizzo dei nuovi telai importati da Oltremanica, ma presto fu evidente come più che mostrare alle maestranze la tecnica tessile egli avrebbe insegnato loro quella calcistica, visto che poco dopo il suo ritorno in Italia, in concomitanza con l’arrivo di alcuni soci e dipendenti inglesi, Bosio aveva deciso di creare l’Internazionale Torino, unione tra le due prime squadre di cui si abbia memoria in Italia, Torino Football & Cricket Club e Nobili Torino.

Kilpin, che in patria era stato mediocre mediano e difensore per Notts Olympic e Saint Andrews senza mai sfiorare i livelli professionistici, si era ovviamente rivelato ottimo giocatore per i miseri standard italiani, ma proprio quando era nata la federcalcio ed era stato organizzato il primo campionato nazionale era stato trasferito per motivi di lavoro a Milano. Partito alla volta della Lombardia dopo aver salutato amici e colleghi con una promessa solenne (“Creerò una squadra capace di battervi!”) l’inglese si era reso conto che nella grande Milano avrebbe potuto realizzare un sogno che aveva avuto fin da bambino, quando a 13 anni a Nottingham aveva creato una squadra ispirata al mitico Giuseppe Garibaldi. Pur non disponendo di grandi conoscenze in loco, e disponendo ancor meno di moneta sonante, sia Kilpin che l’amico Samuel Richard Davies, collega sia nel lavoro che nel campo da gioco, erano però dotati di mente acuta, fervore ed entusiasmo, e fu con queste armi che prima entrarono in contatto con il vice-console inglese Alfred Edwards, notoriamente amante dello sport, e poi lo convinsero a patrocinare la prima squadra di calcio milanese: una grande città, questo fu il loro discorso, meritava una grande squadra di football, una compagine che non avrebbe lasciato l’egemonia del nuovo e meraviglioso gioco alle sole Genova e Torino.

Nasceva così, il 13 dicembre del 1899, il Milan Football & Cricket Club: la squadra avrebbe giocato al campo del Trotter, dove oggi sorge la Stazione Centrale, e i colori sociali sarebbero stati il rosso e il nero. “Il rosso come il fuoco, e il nero come la paura che incuteremo agli avversari!”, sentenziò Kilpin, che pur lasciando la fascia di capitano al centravanti Allison, inglese nato in Francia, fu da subito il leader e il simbolo del “Diavolo”, nome che con tutta probabilità si deve proprio al suo fondatore, protestante in terra cattolica e tanto energico quanto combattivo. Anche se al posto delle pelouse inglesi i nostri terreni di gioco presentavano solo qualche ciuffo d’erba e molto ma molto fango, anche se dieci anni dopo l’invenzione della rete ancora questa non era mai stata vista in una partita di calcio in Italia, nonostante le traverse sbilenche e l’improvvisata organizzazione, il calcio andava avanti anche da noi. Herbert Kilpin fu doppiamente profetico: indovinò quanto gli italiani si sarebbero appassionati al nuovo gioco, coinvolgendo Milano e i milanesi, e riuscì a sconfiggere gli amici di un tempo di Genova e Torino. Neanche due anni dopo la sua fondazione, alla seconda partecipazione al campionato, il Milan si laureò Campione d’Italia sconfiggendo il Genoa, vincitore delle tre precedenti edizioni e che mai aveva conosciuto sconfitta in una partita “ufficiale”. Per arrivare al Grifone, che attendeva in finale secondo la formula utilizzata allora del Challenge Round tipicamente inglese, Kilpin e compagni superarono prima i concittadini della SEF (Società Educazione Fisicia) Mediolanum per 2-0, quindi una Juventus già battagliera con un combattuto 3-2. Come in semifinale, anche nell’atto finale del torneo l’eroe del Milan fu il giovanissimo attaccante Ettore Negretti, autore di una doppietta sia contro i bianconeri che contro il Genoa. Questi, che poi sarebbe letteralmente scomparso subito dopo questo exploit, era uno dei cinque italiani in una squadra ancora a forte matrice straniera, dove oltre agli inglesi Kilpin, Davies, Allison e Hood spiccavano anche gli svizzeri Suter, difensore già campione in patria con il Grasshoppers, e Kurt “Corrado” Lies, spilungone che con il connazionale formava una terza linea impressionante.

Dei campioni d’Italia del 1901, soltanto Kilpin avrebbe fatto parte della squadra che bissò la vittoria nel 1906 e si ripeté nel 1907, dopo un nuovo dominio del Genoa e il primo titolo vinto dalla Juventus: il grande eroe rossonero ormai si avviava per i quarant’anni, era sempre stato un forte bevitore e adesso stava attraversando, come tutti i footballers stranieri, un difficile momento. Vero è che il calcio aveva fatto presa sul popolo italico, ma ancora inglesi e svizzeri erano presenti in gran numero in ogni squadra, intimidendo con la loro bravura i giovani italiani che si mostravano interessati al gioco. Pochi stranieri e pochi cambi al vertice (in dieci edizioni avevano sempre trionfato Genoa, Milan o Juventus) significavano di conseguenza poco interesse e pochi soldi. Una situazione che poteva andare bene a chi giocava per il piacere di farlo (sul campo del Milan, il Trotter prima e l’Acquabella dal 1903, non si pagava il biglietto e non esistevano recinzioni, secondo i più puri principi amateurs) ma che alla lunga scontentò chi intravedeva per il calcio un futuro come sport nazionale, se non addirittura mondiale. A Milano, oltre alla banda di Kilpin, appartenevano altre due squadre: la SEF Mediolanum, sezione calcistica dell’omonima polisportiva e che inizialmente si era data al calcio ginnico, e l’Unione Sportiva Milanese, sorta proprio da alcuni fuoriusciti in seno alla Mediolanum. A differenza di quest’ultima, mai veramente convinta della pratica del Foot-Ball e ben presto scioltasi, l’US Milanese mise in campo notevole convinzione, rivaleggiando con il Milan e piazzandosi due volte seconda in campionato nel 1908 e nel 1909, superata soltanto dalla Pro Vercelli.

Quest’ultima era una squadra nuova, completamente italiana e che ben rappresentava lo spirito del calcio, uno sport dove la provincia poteva competere ad armi pari con le più grandi metropoli. L’ascesa dei vercellesi però raccontava anche di un calcio italiano scosso da forti battaglie, scontri che riguardavano soprattutto la possibilità per gli stranieri di partecipare al gioco che essi stessi avevano portato da noi e che ci avevano insegnato, uno sport che oltretutto, come tutti gli sport, doveva unire e non dividere, appartenere a tutti. La pensavano così i quarantaquattro soci del Milan che, in disaccordo con il proprio stesso club, che era stato fondato da due inglesi ma che dopo un’iniziale resistenza aveva optato per una svolta autarchica, il 9 marzo del 1908 si diedero appuntamento al ristorante “L’Orologio” di Milano per fondare una nuova squadra. La quale non si sarebbe semplicemente limitata a giocare al fólbal, come chiamavano il gioco i milanesi, ma sarebbe anzi stata un simbolo di apertura verso uomini di ogni nazionalità. Un ideale perseguito già dal nome scelto dai soci: Foot-Ball Club Internazionale, che per marcare la differenza con quelli che già erano i rivali del Milan avrebbe indossato come colori il nero e l’azzurro, che in un’epoca dove si utilizzavano le matite a due colori (rosso e blu) era considerato appunto l’opposto del rosso. Primo presidente del club fu eletto l’imprenditore veneziano di origini albanesi Giovanni Paramithiotti, mentre il primo vero capitano – dopo la breve esperienza dello svizzero Marktl – fu il giovane centromediano Virgilio Fossati: alto, snello ed elegante, avrebbe in seguito perso la vita da eroe durante la Grande Guerra. La prima edizione di quello che sarebbe divenuto noto come “Derby della Madonnina” va in scena nell’ottobre del 1908, quando Inter e Milan si trovano di fronte nella finale della terza e ultima edizione della Coppa Chiasso, prima competizione calcistica organizzata nel Canton Ticino. Dopo aver superato un’altra delle sempre più numerose compagini milanesi, l’Ardita Ausonia creata dall’omonima casa automobilistica, l’Inter accede alla finale per sorteggio e qui cade 3-2 contro i “cugini” (ma forse sarebbe meglio dire “padri”?) rossoneri, che si impongono grazie alle reti di Lana e Forlano a cui ha risposto temporaneamente Peyer. Si tratta della prima di numerosissime sfide tra quelle che presto resteranno le uniche squadre di rilievo del movimento calcistico milanese nonché tra le due squadre più vincenti e tifate d’Italia dopo la Juventus, un futuro glorioso che però allora quei coraggiosi pionieri possono soltanto sognare.

A differenza del Milan, l’Inter arriva nel calcio quando questo ha già superato la sua primissima fase embrionale, e a lungo ne scriverà la storia nonostante l’avversione da parte del crescente regime fascista, che mai gradirà il richiamo all’internazionalità insito nel nome del club e addirittura ne cambierà la denominazione durante il Ventennio, trasformandola in Ambrosiana. Rappresentanti due parti distinte della città, quella altolocata dei baùscia che si recano allo stadio in muturèta l’Inter e quella dei casciavìt il Milan, i cui tifosi vengono dalle classi popolari e si recano allo stadio in tram, le due compagini avranno inizialmente successi diametralmente opposti. I tifosi rossoneri dovranno infatti a lungo assistere ai trionfi dei nerazzurri, guidati da Giuseppe Meazza, prima di tornare a gioire per la vittoria di un campionato: questo accadrà soltanto nella stagione 1950/1951, oltre trent’anni dopo l’ultimo trionfo, coinciso con l’ultima gara di Kilpin in rossonero. Trent’anni senza vittorie: una maledizione, forse, per avere allontanato in malo modo quel figlio di un macellaio inglese che, per primo, portò un pallone da calcio a Milano.

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