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Il Metodo Vincente # 3: Convincere…per vincere

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Il fluire delle parole, adesso, sembrava scorrere da solo. Il primo momento di sconforto, ormai, aveva lasciato spazio al ricordo affettuoso, quasi paterno, dei suoi guerrieri.
Così, all’amarezza per quanto accaduto poche ore prima iniziò a subentrare il momento delle dolci memorie, della voglia di dare un abbraccio o anche solo una semplice pacca di conforto, cose tanto rare nei modi di fare di un Pozzo mai fuori dagli schemi, quanto desiderate in quel momento. I confronti con Romeo Menti, le due dita di vino con Ezio Loik a fine gara, i capricci di Valentino Mazzola vivevano nella mente non dell’allenatore, né del giornalista, ma dell’uomo privato. Privato in quanto tale, nella sfera più intima dei sentimenti, ma anche nell’aggettivazione del termine, il sentirsi sottratto di qualcosa di caro.

L’etica del rifiuto aveva lasciato spazio all’arte magica della retorica: Vittorio Pozzo, nello scrivere, aveva tolto le vesti della tristezza, della rigidità, del suo stesso orgoglio, per mostrarsi nudo di fronte al mondo, senza quel vero di austerità che da sempre lo aveva contraddistinto. E fu proprio il tanto declamato ed innato senso del dovere a dargli la spinta per andare oltre ai suoi limiti. Si era, in poche parole, liberato delle catene che lo tenevano legato per mezzo del più grande potere che possa esistere nell’universo: quello della convinzione.

Tuttavia, la forza dirompente scaturita da quello che potremmo definire un’autoindottrinamento non era assolutamente una novità per Pozzo. D’altronde, nessun uomo scaramantico può negare l’esistenza della convinzione: quando, nel 1930, sul prato dell’Ulloi ut di Budapest, dopo aver vinto la Coppa Internazionale, il tecnico torinese prelevò da terra un frammento di cristallo derivante dal trofeo appena sfuggito dalle mani di un giocatore e frantumatosi sul suolo, decise che quello sarebbe stato un cimelio portafortuna da tenere nel taschino interno della giacca, sempre la stessa, indossata durante le gare. O ancora, quel biglietto per l’Inghilterra regalato da alcuni parenti, mai usato, che portava sempre con sé. E, così come lui, chiunque tra i giocatori passati sotto il torchio del suo metodo, inteso sia come modulo di gioco, un 2-3-2-3 che oggi definiremmo da calciobalilla, ma che fu l’evoluzione quasi difensiva di quel 2-3-5 ereditato dai padri fondatori inglesi, sia come filosofia di lavoro e comportamento portata sul campo, conosceva benissimo quella sensazione, trasmessa proprio tramite i gesti e le parole proferite dal tecnico. Uno su tutti, Attilio Ferraris.

Siamo alla vigilia del Mondiale 1934. Pozzo sta selezionando i giocatori che comporranno la rosa destinata a scendere in campo, lungo lo Stivale, per il torneo più importante tra quelli esistenti per le Nazionali. Mussolini, infatti, era riuscito nel suo intento: convincere il mondo alla potenza dell’Italia, tanto da ottenere in maniera quasi plebiscitaria, a Zurigo nel 1932, l’onore ed onere di organizzare la manifestazione. I preparativi fervono e non è ammesso alcun tipo di fallimento, per cui non mancano le pressioni in capo all’allenatore.

Uno degli elementi migliori del suo centrocampo, però, sta conoscendo una fase discendente della carriera. E non è colpa dell’età: deve ancora compiere 30 anni, e sono numerosi i giocatori più anziani di lui presenti in pianta stabile in azzurro. Nemmeno degli infortuni. Sarebbe sano come un pesce, se solo non si concedesse qualche sigaretta. Poi un bicchierino, poi un’altra sigaretta. Attilio Ferraris, di Roma, è un giocatore allo sbando più totale. Ha dilapidato un patrimonio giocando a poker, ma soprattutto scommettendo. In particolare, qualche strano giro di amicizie lo ha trascinato nei rioni più popolari, a seguire le corse clandestine dei cani, sui quali punta cifre impensabili. E poi donne, i primi prototipi di auto, il biliardo. Per la città, oltretutto, si vocifera che nel bar regalatogli dal presidente della Roma, tale Salvatori, si giochino tornei che durano giorno e notte, e le dicerie trovano conferma nelle ripetute assenze in allenamento, che sfociano quasi in un regime di clandestinità. Lajos Kovacs, allenatore ungherese conosciuto per il proprio pugno di ferro, gli fa visita in piena notte, alla vigilia di un match di campionato, e lo trova in azione. Il giorno successivo, Ferraris non si presenta all’orario di ritrovo. Arriverà soltanto a partita iniziata, alticcio e con le occhiaie scavate sul volto: fuori rosa, a tempo indeterminato. Manca meno di un anno all’inizio della competizione iridata, e Attilio sembra aver deciso di appendere le scarpette al chiodo. Quel bar che lo aveva distrutto, sarà il point break della carriera e della vita di Ferraris: un pomeriggio, è Pozzo ad entrarvi, prende da parte l’oramai ex calciatore e lo invita a smettere di fumare e bere, lo sprona a rimettersi in forma e gli concede lo zuccherino finale: se avrà superato le prove, al Mondiale toccherà a lui. La partita d’esordio, peraltro, si giocherà nella sua città, che nonostante tutto non ha ancora smesso di idolatrarlo. Qualche mese dopo, tirato a lucido come non mai, farà parte della spedizione. 

Sarà solo la prima vittoria di Pozzo: il cammino verso il trionfo parte con un roboante 7-1 agli Stati Uniti, magistralmente raccontato a tutta la nazione dalla voce di Nicolò Carosio, che nel frattempo aveva importato la cronaca radiofonica delle partite dall’Inghilterra, assente alla competizione a causa dei continui alterchi con la Federazione Internazionale. Oltre ai sudditi di Re Giorgio, mancavano all’appello, su tutti, l’Uruguay, in risposta al boicottaggio di numerose nazionali europee quattro anni prima, e i più forti giocatori di Brasile ed Argentina: i primi a causa dello status di disordine che governava in materia di regolamentazione dei contratti dei giocatori, con numerosi atleti che rifiutarono la convocazione, i secondi per paura. Portare i giocatori più forti in Italia, infatti, sarebbe equivalso a perderli: già da tempo, infatti, era massiccio il passaggio di giocatori da Buenos Aires e dintorni al Belpaese, con conseguente naturalizzazione.
Esempio chiave era Luisito Monti, divenuto Luigi a causa dell’italianizzazione imperante in epoca fascista. Centromediano con compiti esclusivamente difensivi, dopo aver giocato con la maglia albiceleste nel Mondiale del 1930, passò alla Juve nel 1931 e divenne nazionale italiano in meno di un anno, anche grazie alle origini romagnole.

E sarà una delle chiavi del successo azzurro: la doppia sfida contro la Spagna, ai quarti di finale, ha stremato i giocatori. La partita con l’Austria, in semifinale, ci vede sfavoriti, perché stanchi e privi di un elemento chiave come Pizziolo, compagno di reparto di Monti, il cui Mondiale è finito anzitempo a causa della rottura dei legamenti del ginocchio. Poi, soprattutto, dall’altra parte c’è Matthias Sindelar, probabilmente il miglior numero 10 al mondo.
Il ct si gioca una doppia carta: Ferraris al posto di Pizziolo, Monti francobollato a Sindelar. Per nostra fortuna, lo svedese Elking tollera le notevoli mazzate che il buon Luis, in collaborazione con un indomito Attilio, rifila al fantasista austriaco, uscito dal campo più che malconcio, e l’Italia vince 1-0.

La finale contro la Cecoslovacchia ci vide trionfare, dopo i supplementari, in un impianto colmo fino all’orlo, che spinse i giocatori anche quando, più che correre, si trascinavano sul campo. Angelo Schiavio, bolognese doc, decise la partita con un diagonale imparabile, e dopo il gol si accasciò a terra, stremato. L’immagine di un’Italia che, pur stanca, fu vincente e convincente. Anche se, è il caso di dirlo, ebbe bisogno di qualcuno che convincesse i giocatori di poter vincere, prima di farlo. Chi, se non Vittorio Pozzo?

(CONTINUA)

 

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