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Monday Night – Euro 2000, l’Heysel e un imbarazzante silenzio

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Cosa si può fare in quindici anni? Molto, quasi tutto. Di certo, però, è un lasso di tempo troppo breve per poter dimenticare: le ferite vengono lenite, disinfettate o cauterizzate. Eppure, la cicatrice resta lì, visibile ad occhio nudo e sotto gli occhi di tutti.

 

Non c’ero, quel 14 Giugno del 2000, al Re Baldovino di Bruxelles. Perdonatemi, se per la prima volta abbandono i panni del narratore esterno e parlo in prima persona. Questo perché, in fondo, in questo Monday Night racconto un po’ anche di me, fuoriuscendo dai classici meccanismi dello storytelling. Non c’ero, ma ho un ricordo cruciale di quella sera: per la prima volta nella mia vita, sentii parlare dell’Heysel.

 

Il Re Baldovino, infatti, altro non era che il nuovo volto, sapientemente ristrutturato per motivi di sicurezza, di uno dei luoghi più tragici nella storia del calcio italiano. Un nuovo nome usato come pasta abrasiva, nel tentativo di cancellare le tracce di una macchia troppo grande per tutti. Ma sotto la scocca, vividi più che mai, i graffi, tornati a galla in una fresca sera di Nyon nel Dicembre del 1999. Nella sede dell’UEFA, tutti compresero che l’urna del sorteggio, beffarda come non mai, avrebbe comportato un ritorno sul luogo del delitto. 14 Giugno del 2000, Belgio – Italia. Per la prima volta, a quindici anni dalla strage, la nazionale italiana sarebbe scesa in campo a pochi passi da quel settore Z, ormai smantellato e riconvertito a nuova vita.

 

I bambini, si sa, sono pervasi da una fanciullesca curiosità. Davanti al televisore, chiesi a chi mi era intorno perché si parlasse così frequentemente dell’Heysel. In fondo, per l’Italia, sarebbe stata una partita come un’altra all’interno del cammino in quell’Europeo. Non ho memoria – sono sincero – delle risposte ricevute, ma ho un’immagine fissa nella mia mente, che coincide con quella riportata in alto: Maldini e Conte, due mazzi di fiori e il resto della squadra alle spalle. E in sottofondo, una canzone disco emessa dagli altoparlanti dello stadio.

 

Fu tutto così surreale, incluse le parole di Bruno Pizzul. La stessa voce che nel 1985 cercò di raccontare quanto stava accadendo nell’attesa di quella finale di Champions League tra Juventus e Liverpool, accompagnava con tono sommesso la celebrazione, sordidamente sovrastato dalle note musicali. In quella serata, mi godetti lo spettacolo di una nazionale effervescente, il gol di Stefano Fiore e un’esultanza mai vista, tesa ad indicare nome e numero termopressurizzati sulla divisa. Fu solo il giorno dopo, tra le righe delle pagine di un Corriere dello Sport divenuto fedele guida calcistica della mia infanzia (insieme a Calcio 2000, ma non ditelo al direttore di 1000 Cuori Rossoblu…), che scoprii dei 39 morti e di una gara portata a termine in un’atmosfera surreale.

 

Scoprii, soprattutto, di un retroscena al limite dell’omertoso. Di un’UEFA che rifiutò la richiesta italiana di apporre la fascia nera al braccio, di una serrata lotta con la FIGC per avere la possibilità di ricordare quanto occorso tre lustri prima. Della richiesta di una commemorazione riservata solamente a Maldini, capitano azzurro, e a Conte, omologo juventino, seguita dal doveroso rifiuto della delegazione azzurra, diretta in massa verso una basica lapide marmorea recitante una data, quella del 29 Maggio 1985, e un generico “in memoriam”. Della commozione dei giocatori, soli di fronte ad un ingombrante passato, senza lo straccio di un annuncio degli speaker e con un’inappropriata musica da discoteca a dissacrare il momento. E soprattutto, di un imbarazzante silenzio delle medesime istituzioni che già nel 1985 decisero, incredibilmente, che lo show non doveva essere fermato.

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