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Monday Night – Roy Keane, al centro della battaglia

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Su queste pagine, ne abbiamo già raccontate diverse di storie così. Quella di Vinnie Jones, duro e puro del Wimbledon che vince la FA Cup nel 1988 contro il grande Liverpool, o Robbie Fowler che sniffa la riga di fondo campo contro l’Everton e si becca quattro giornate di squalifica. Il calcio dei poeti e dei navigatori, parafrasando la reputazione italiana, è fatto però di pochi Santi, soprattutto nei tempi recenti, quando la morigeratezza, l’educazione e la lealtà di molti campioni del passato, è merce rara. 

Genio e sregolatezza è diventato un binomio abusato, i tifosi sono addirittura affascinati da chi va oltre le righe, perché il calcio è lo sport della gente e la gente vuole “uno di noi”. Non uno qualsiasi. E di certo Roy Keane da Cork, classe 1971, entra di diritto nella hall of fame degli anticonformisti, dei “maverick”, dei duri e puri, di coloro che camminano sul baratro: da una parte gioia, dall’altra abisso. Quante pagine e quante cose sono state scritte e dette di uno dei simboli del Manchester United che dal 1993 al 2006 è stato profeta non in patria. Dall’Irlanda, ha infiammato e conquistato i cuori dei tifosi United, dei Red Devils, incarnando in pieno lo spirito di rinascita proprio negli anni della sua militanza.

Sette Premier League (le stesse dei compagni di squadra Wes Brown e Irwin), una coppa dei Campioni, l’Intercontinentale e altre cose. Ma soprattutto quel muso duro, sfuggito a ogni logica e regola di comportamento troppo spesso. Ma anche un autentico fuoriclasse “box to box”, capace di raccordare il centrocampo e imporre la sua presenza e il suo carisma come pochi al mondo. 

“Roy ha la lingua più tagliente che possa esserci. Discutendo con lui un giorno, vidi i suoi occhi che si facevano sempre più piccoli. Era inquietante. E io vengo da Glasgow”. Parole e musica di Sir Alex Ferguson, uno che “Roy” lo ha conosciuto bene, per usare un eufemismo, e con il quale di discussioni ne ha avute parecchie. Tra i due è calato un silenzio che dura ancora oggi. “Suo figlio ha giocato nel club e vinto la Premier, suo fratello è capo scout. Sono sorpreso non abbia messo sua moglie nello staff”, Keane dixit, tanto per capire. 

“Io giocavo al centro del campo di battaglia, mica uno può pretendere di non farsi male. Non sono una di quelle mezze ali furbette che pensano sempre di non infortunarsi mai”, una delle sue massime. Roy Keane è stato l’anima di quel Manchester United risorto dalle ceneri dopo anni di dominio dei nemici del Liverpool. Ed è stato molto altro. Peschiamo dal mazzo: Manchester United-Manchester City, aprile 2001. Il Manchester United veleggia verso il suo terzo titolo consecutivo, il City è tutt’altro che quello odierno. Gioca ancora al vecchio Maine Road, e con, tra gli altri, Kancheskis (vecchia conoscenza della Fiorentina), il costaricano Wanchope e Shaun Weight-Philips, futuro giocatore del Chelsea, la squadra di Joe Royle finisce diciottesima e retrocede. Un’era fa.  

Si decide tutto nell’ultimo quarto d’ora. In vantaggio con un rigore di Sheringham, il City pareggia a sei dal termine con Howey. Ma non è certo per il risultato che la gara andrà agli archivi. Haaland, vi dice nulla questo cognome? E’ in campo quel giorno Alf-Inge, il padre dell’attuale attaccante del Borussia Dortmund, che quel pomeriggio dovrà pagare un debito innocente deciso dalla mente di Roy. Per capirlo, occorre fare un salto indietro di qualche anno. Nel settembre 1997, quando Haaland era in forza al Leeds, a Elland Road va in scena la sfida allo United. Molto di quel “treble” del 1999 (Fa Cup, Premier e Champions League vinte dallo United) inizia quel pomeriggio, per Roy Keane. Perché quella stagione trionfale sarà preparata in estate con duro lavoro e sacrificio, dopo che in quel pomeriggio nello Yorkshire un intervento del norvegese, peraltro non diretto sull’uomo, tentando invece di chiudere la strada al rivale che stava entrando in area, finirà per rompergli i legamenti e fargli saltare tutta la stagione 1997-98. 

Fin qui appare tutto normale o quasi. Keane però viene accusato di simulare: Haaland si china su di lui e lo intima di rialzarsi, prontamente allontanato dai compagni. Azione equivalente ad entrare in un quartiere di neri con la tenuta del Ku Klux Klan, o con la canotta della Fortitudo in curva della Virtus. Mai giocare col fuoco. E Haaland, quel giorno, non sa di bruciarsi.

Passano dunque quattro anni prima di quel derby, che vede Haaland nelle file del City. Stagioni in cui si incrociano a malapena, tra infortuni e impegni con le nazionali, o semplicemente perché non vengono schierati dai loro allenatori. In quei pochi rendez-vous, comunque, nessuna vendetta. Il conto viene saldato nel modo peggiore possibile quel giorno di aprile. Nel secondo tempo, Keane tenta un dribbling che gli riesce, ma si allunga il pallone. Haaland ha gioco facile per intervenire e anticiparlo ma, sapendo di non poter ormai più prendere il pallone, il piede destro di Keane finisce deliberatamente sul ginocchio di Haaland che prima di cadere a terra rotea addirittura su sé stesso. Tredici tacchetti stampati direttamente sul ginocchio di Haaland padre.

Per il norvegese è la fine della carriera da calciatore. Rosso, cinque giornate di squalifica e 200 mila euro di multa per la colonna dello United. Non esistono parole migliori che le sue per dare la sentenza definitiva sulla vicenda: “Avevo aspettato tanto e l’ho colpito dannatamente forte. Beccati questo stronzo. E non provare più a dirmi che simulo un infortunio”. Poi, nel tempo, addolcirà la pillola, più o meno, distinguendo tra volontarietà e senso di colpa per avergli rubato il futuro. “L’ho colpito forte si, era nelle mie intenzioni. Ma ci eravamo incontrati altre volte, perché avrei dovuto aspettare anni? Non volevo fargli finire la carriera. E’ stato uno scontro di gioco”.

Keane rifletterà anche sui compagni di squadra di Haaland, che quel giorno non intervennero a difenderlo. Per paura di Roy? Lui stesso ha un’idea ben precisa: “Mi lasciò meravigliato il loro comportamento. Se fosse accaduto a uno dello United sarei stato lì a difenderlo. Probabilmente anche loro pensavano che fosse un coglione”. Firmato Roy Keane. E chi sennò?

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