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Tutto calcio che Cola #53: Moacir Barbosa, cinquant’anni di solitudine – 07 apr

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Moriva oggi, esattamente quindici anni fa, un campione che dentro era ormai morto da tempo. Un calciatore che aveva visto tutti i successi accumulati in carriera cancellati da un unico, fatale, errore, e che da allora era stato dimenticato dai propri connazionali, dal proprio calcio. Un calcio, quello brasiliano, che è sinonimo di allegria e che invece un tragico pomeriggio del 1950 diventò tragedia. Maracanaço lo chiamarono in Brasile, “la disfatta del Maracanà”: il colpevole, l’unico imputato del lutto che colpì una nazione, fu lui. Moacir Barbosa Nascimento, il protagonista della nostra storia di oggi.

Il calcio in Sudamerica si era diffuso subito, ma mentre Uruguay e Argentina fin da subito si erano dimostrate scuole dominanti il Brasile stentava ad emergere: i giocatori erano ostaggi delle rivalità in corso tra le varie federazioni locali ed avevano finito per non dare alla Nazionale quel contributo di talento e classe che in seguito avrebbe fatto diventare questo Paese uno dei punti di riferimento del calcio mondiale. Nel 1930 la squadra si era presentata incompleta, formata solo da giocatori del Campionato Carioca, finendo eliminata subito; nel 1934 i brasiliani erano arrivati in Italia in pompa magna ma stremati dal viaggio e dalla scarsa preparazione ed erano stati immediatamente eliminati dai più concreti spagnoli.[1] Nel 1938 invece solo la supponenza aveva fermato la squadra trascinata dal capocannoniere Leônidas, uno che segnava gol “così belli che il portiere avversario si rialzava per congratularsi” [2]: nella decisiva semifinale con l’Italia, che pure era campione in carica, il Brasile aveva lasciato a riposo le sue stelle ed era stato eliminato.

Anche se c’era stata la guerra di mezzo, i brasiliani non avevano dimenticato la lezione, o almeno questo era quello che tutti pensavano quando si avvicinava l’inizio dei quarti Mondiali di sempre, quelli del 1950. Il Brasile ne aveva ottenuto l’organizzazione per volere del suo leader, il dittatore Getúlio Vargas. Con la Nazionale trionfante nella Coppa del Mondo egli intendeva rafforzare la sua leadership. E del resto la Nazionale, allenata da un maestro della tattica come Flávio Costa, era fortissima: giocava con un modulo che era antesignano del 4-2-4 e che prevedeva una prima linea fortissima composta da Friaça, Jair e Chico dietro la punta di diamante Ademir, mentre a centrocampo spiccavano Danilo e Zizinho, l’idolo di gioventù di un certo Pelé. Anche la difesa non scherzava in quanto a nomi: da destra a sinistra Augusto, Bauer, Juvenal e Bigode. Dietro di loro uno dei portieri più forti al mondo, una sicurezza, un campione che non aveva mai sbagliato una partita: proprio Moacir Barbosa.

Era nato a Campinas, nella provincia di San Paolo, e fin da giovanissimo aveva mostrato grande vocazione per un ruolo notoriamente snobbato dai bambini brasiliani, quello del portiere. Laddove i suoi coetanei affinavano il dribbling il piccolo Moacir curava il colpo d’occhio, e mentre gli altri bambini allenavano corsa e tiro lui migliorava scatto e agilità, condendo il tutto con una presa ferrea sul pallone, che afferrava con sicurezza senza guanti: questa particolarità era dovuta, inizialmente, alla mancanza di questo “attrezzo del mestiere”, e in seguito era diventata una sua peculiarità. “Per meglio sentire il pallone”, avrebbe detto una volta divenuto famoso e rispettato.

Accadde presto. Del resto uno con il suo talento, in un Paese essenzialmente povero di calciatori votati a difendere, non poteva passare inosservato: dopo l’esordio nell’Atletico Ypiranga, ad appena 23 anni Barbosa divenne il portiere titolare del Vasco da Gama, la squadra più forte del Brasile. Ne fu per un decennio la colonna, il muro dove andavano a sbattere e morire i tentativi degli avversari di segnare: ai Mondiali del 1950 Barbosa si presentava nel pieno della maturità fisica e tecnica, e se con la Nazionale aveva vinto la Copa America appena l’anno precedente con il club il suo era un palmares impressionante composto da quattro campionati Carioca e la vittoria nel 1948 del Campeonato Sul-Americano de Campeões”, torneo che in seguito sarebbe diventato la Coppa Libertadores.

Il 16 luglio del 1950 è una data che è entrata nell’immaginario collettivo dell’intero Brasile: i padroni di casa affrontavano l’Uruguay nell’ultima partita del torneo, che per la prima volta non prevedeva finale ma un girone conclusivo. I brasiliani comandavano la classifica, e si sarebbero laureati campioni anche con un pareggio, ma il “Maracanà” stracolmo – oltre 200.000 i presenti – esigeva un’altra vittoria, l’ennesima di un torneo vissuto da dominatori. Gli uruguaiani ne erano consapevoli, ed ecco dunque che giocarono una gara prettamente difensiva. Alla fine ebbero ragione loro: nonostante l’indubbia classe mostrata dai brasiliani, che addirittura erano passati in vantaggio all’inizio del secondo tempo con Friaça, l’Uruguay riuscì a pareggiare quando mancavano poco più di venti minuti alla fine.

“Quindi Ghiggia dice a Pèrez, che è il suo insider di riferimento come viene detto all’epoca: <<Me la dai sui piedi, triangolo (pared tuya-mia) alle spalle di Bigode, a questo punto Augusto non può uscire sempre, deve zonare, vediamo gli inserimenti. Oppure, se devo fare uno contro uno con lui, me lo mangio>>.” [3]

Va proprio così. Ghiggia a Pèrez, triangolo e via sulla fascia con Bigode che gli arranca dietro. Ghiggia arriva sul fondo, la mette nel mezzo, arriva Schiaffino e gol. Pareggio al 66° minuto mentre sul Maracanà cala il silenzio. Qualsiasi squadra ragionerebbe, si fermerebbe, gestirebbe. Il Brasile, quel Brasile, non può: riparte frenetico, vuole il gol che mandi via l’incubo. Ma poi il pallone finisce ancora a Ghiggia. Che la da a Pèrez che gliela restituisce. È la fotocopia del gol precedente, solo che stavolta Barbosa, quando vede arrivare Ghiggia sul fondo, coglie con la coda dell’occhio Schiaffino appostato al centro dell’area. Accenna un passo in uscita, pronto a intercettare un cross che però non arriva. Già, perché Ghiggia all’ultimo cambia idea e tira sul palo di Barbosa, che si tuffa disperatamente ma non può niente. È il gol che decide la gara, arriva proprio sul palo che il portiere deve coprire. Una frazione di secondo, un attimo di indecisione, decidono il destino della Coppa del Mondo e di Moacir Barbosa.

Continua a giocare ancora per molti anni, continua a vincere. Ma l’onta del Maracanaço non gli verrà mai perdonata. Lui e lui soltanto sarà il capro espiatorio, l’unico colpevole, della disfatta di un intero Paese. Lui, che pure è stato votato dalla FIFA come il miglior portiere della manifestazione: allo stomaco, alla voce del popolo, non si comanda. E non conta essere oggettivi. Non conta sottolineare come quella maledetta supponenza, quel dare per scontata una vittoria senza aver imparato niente dal passato, ebbe un ruolo molto più determinante. Non conta dire che nel calcio si vince e si perde come una squadra, che magari il CT Costa poteva cambiare qualcosa a livello tattico dopo il primo gol. Non conta che la squadra intera non seppe accontentarsi, né che il pubblico mise effettivamente troppa pressione alla Nazionale prima e durante la gara, impedendole di concentrarsi. E Ademir? La punta di diamante e goleador della squadra in finale fu un fantasma, eppure nessuno pensò di condannarlo all’oblio come accadde con Barbosa. 

Se infatti fino al suo ritiro Moacir continuò a giocare seppur nell’indifferenza generale – c’era ancora lui tra i pali del Brasile che nel ’53 arrivò secondo in Copa America – fu dopo che l’ostracismo e il disprezzo popolare divennero evidenti. Nel tentativo di dimenticare il Maracanaço il Brasile fece distruggere le porte dello stadio sostituendole con delle nuove, in metallo. Barbosa chiese ed ottenne quei tre legni maledetti che gli erano costati tanto dolore, e nel giardino di casa sua li bruciò, sperando di cancellare così i suoi fantasmi. Inutilmente. Il popolo brasiliano non dimenticò: all’inizio degli anni ’80, mentre si trovava a fare la spesa in un supermercato, udì una donna sussurrare al figlio “Lo vedi quel signore? Fece piangere tutto il Brasile” mentre nel 1993 prima gli fu impedito di commentare una partita della Nazionale. 

“Passarono gli anni e Barbosa non fu mai perdonato. Nel 1993, durante le eliminatorie per il Mondiale degli Stati Uniti, volle fare gli auguri ai giocatori della nazionale brasiliana. Andò a visitarli in ritiro ma le autorità calcistiche gli vietarono l’ingresso. A quel tempo viveva ospite in casa di una cognata, senza altra entrata che una pensione miserabile. Barbosa commentò: <<In Brasile la pena più lunga per un crimine è trent’anni di carcere. Io da quarantatré pago per un crimine che non ho commesso.>>” [4]

Questi ultimi sono solo gli episodi più eclatanti di cinquant’anni vissuti davvero come un esiliato: solo, evitato da tutti, nell’indifferenza di un popolo che è sempre stato bravissimo nel creare degli idoli ma che, nel suo caso, dimostrò anche quanto vana sia la gloria e quanto sia facile, per un solo singolo errore, essere scaraventati dall’altare alla polvere. Il 7 aprile del 2000 Moacir Barbosa Nascimento morì dopo cinquant’anni di solitudine, solo e in povertà. Quel giorno, forse, poté finalmente riposare in pace.

“Era tutto previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay.” 
(Jules Rimet) 

Note:
[1]“Storia dei Mondiali di calcio” (S. Bocchio, G. Tosco), pag. 33, Sestante
[2]“Splendori e miserie del gioco del calcio” (E. Galeano), pag. 81, Sperling & Kupfer 
[3]“Storie Mondiali” (F. Buffa, C. Pizzigoni), pag. 18, Sperling & Kupfer 
[4]“Splendori e miserie del gioco del calcio” (E. Galeano), pag. 101, Sperling & Kupfer 

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