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Calcio

Cose dell’altro…Calcio di Mattia Grandi

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Il campionato del mondo di calcio del 1950 in Brasile è stato un autentico microcosmo emozionale, culturale ed economico con inattesi risvolti nel tessuto sociale del pianeta. Sono gli anni del secondo dopoguerra, l’economia europea è in lenta ripresa ed alcune nazioni rinunciano preventivamente all’appuntamento iridato a causa dei costi logistici del viaggio oltreoceano. Germania e Giappone, in seguito al conflitto bellico, sono fuori dalla FIFA, il blocco sovietico opta per la mancata partecipazione. Una autentica guerra fredda pallonara che va dal forfait argentino, in aperto astio con il paese ospitante, alla richiesta dell’India di disputare gli incontri a piedi nudi. L’Italia è la sola nazionale che decide di non affidarsi all’aereo per raggiungere il Sudamerica, viaggiando via mare. La comitiva azzurra si imbarca a Napoli il 3 giugno 1950 arrivando a Rio due settimane più tardi. Allenamenti improvvisati sul ponte della nave Sises, palloni “rubati” dalle folate di vento dell’oceano e ronde notturne per evitare la proibita movida con una compagnia danzante femminile imbarcata nella stessa attraversata. Troppo vivo il ricordo di quel fatidico 4 maggio 1949: la tragedia di Superga, la dipartita del Grande Torino. Una ferita aperta che suggella l’imbarco via mare fortemente caldeggiato anche dalla stampa accreditata. Il verdetto del campo è spietato per gli azzurri campioni del mondo in carica. La sconfitta per 3-2 contro la Svezia sentenzia la prematura eliminazione. Altra vittima illustre del mondiale sudamericano l’Inghilterra estromessa dagli sconosciuti Stati Uniti. Un’onta indescrivibile per il popolo inglese chiuso nel suo omertoso aplomb. Acqua di rose a confronto dell’autentico “dramma sportivo” consumatosi nella finalissima del Maracanà. Sfida “made in Sudamerica” tra Brasile ed Uruguay con i padroni di casa avvantaggiati dai quattro punti (tre per la Celeste) conquistati nei precedenti vittoriosi match con Svezia e Spagna. Ai “carioca” basta un pareggio per laurearsi campioni del mondo. La supremazia casalinga si traduce nel vantaggio di Friaca (dopo due soli minuti di gioco del secondo tempo) impattato al minuto ventuno (sempre del secondo tempo) da Schiaffino. I brasiliani perdono la testa nel tentativo di umiliare gli avversari che in contropiede, con Ghiggia, infilano Barbosa. Psicodramma collettivo. L’Uruguay alza la coppa ed il popolo verdeoro cade in una gigantesca forma di depressione generale. Il difensore Danilo, uno dei protagonisti sul rettangolo di gioco, prova a togliersi la vita dallo sconforto. Il portiere Barbosa, colpevole di una incertezza sulla seconda marcatura uruguagia, viene letteralmente epurato dalla società morendo tra stenti, solitudine e miseria. Eloquente il suo testamento verbale raccolto pochi mesi prima del fatal sospiro: “In Brasile la pena più alta per un crimine ammonta a trent’anni. Io sto pagando da quarantadue primavere per un crimine che non ho commesso”. Parola del Dio Calcio. Andiamo in pace.

Mattia Grandi

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