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7 Giugno 1964 – “Storia RossoBlù dalla nascita fino all’ultimo scudetto” – 2 Feb

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30 – La tragedia di Weisz, il maestro dimenticato

È come se all’improvviso gente come Fabio Capello o Marcello Lippi non desse più notizia di sè, e nessuno si prendesse la briga di andare a cercarla. Fantascienza, certo. Eppure con Arpad Weisz è andata esattamente così. E dietro questa sparizione c’è stata una tragedia. Quella di un uomo, di una famiglia, di un intero popolo. Durante, e dopo, il mondo fuori rimosse. E rimosse Bologna, che quasi settant’anni più tardi, finalmente, ha dedicato a questo grande maestro del calcio una targa nel luogo in cui costruì la sua gloria e quella rossoblù. Sul muro dello stadio Dall’Ara, da cui fu allontanato quando le leggi razziali misero al bando gli ebrei. Era il più grande, quando se ne andò. Da tecnico del Bologna aveva vinto, un anno prima, il Torneo dell’Esposizione di Parigi, all’epoca il massimo alloro del calcio europeo. E due scudetti. Anzi, due e mezzo: perché nella stagione ‘38/39 Felsner, tornato sulla panchina del Bologna dopo che Weisz aveva dovuto lasciare l’Italia perché l’aria per gli ebrei si era fatta irrespirabile, portò a compimento un’opera iniziata dal predecessore. È il più grande ancora oggi, nella storia rossoblù, insieme allo stesso Felsner e a Bernardini. Ma solo da poco la sua storia è tornata a galla. Nei dettagli. Grazie a un libro, e a un autore, Matteo Marani, attento e sensibile, al punto da rispolverarla dagli archivi.

 

Arpad Weisz era un genio della panchina. Innovatore fino quasi ad essere rivoluzionario, per l’epoca. Era nato per allenare, e lo capì quando ancora stava in mezzo al campo, ala sinistra della Nazionale ungherese, simbolo di un calcio che faceva scuola. Era un grande del calcio, ma finì la sua vita dimenticato o, peggio ancora, cancellato dal ricordo. Era ebreo e questa, per le aberranti ideologie dell’epoca, fu la sua colpa e la causa della sua tragedia personale. Si chiamava Weisz, e quella W diventò subito V in un’Italia autarchica che aborriva tutto ciò che aveva un vago sentore di diversità, di esterofilia. Ma in fondo un cognome “aggiustato” sembrava ancora un problema risolvibile, nei primi anni del ventennio. Soprattutto per un giovane già segnato dagli eventi, carattere di ferro e obiettivi ben precisi in testa.

Nato a Solt, in Ungheria, nel 1896 (prime incertezze: per alcune fonti l’anno di nascita è il 1891), Weisz era stato prigioniero di guerra in Italia, e ci tornò da giocatore di calcio. Sei presenze in Nazionale, una delle quali in amichevole contro gli azzurri nel ’23, giocò in patria nel Torekves e nel Makkabi Brno, da noi nell’Alessandria e per una stagione (’25-26) nell’Inter dove segnò tre reti in undici partite. Cominciò a scoprirsi allenatore proprio ad Alessandria, da “secondo” di Rangone, e la consacrazione arrivò in casa nerazzurra. All’Inter, Weisz si trovò tra le mani un centromediano di classe infinita, Fulvio Bernardini, e lanciò in prima squadra un ragazzino destinato a fare storia, Giuseppe Meazza. Nel novembre del ’27 un brutto colpo del destino gli ispirò una grande mossa tattica: Luigi Allemandi, terzino azzurro appena arrivato a rinforzare la difesa nerazzurra, fu squalificato a vita per illecito sportivo, e il tecnico ungherese mise mano alla formazione “inventandosi” la famosa «linea dei cinque terzini», ovvero arretrando le due mezze ali e incastrandole nella seconda linea, col doppio compito di arginare e lanciare gli attaccanti. In Inghilterra Herbert Chapman, tecnico dell’Arsenal, inventava in quegli anni il Sistema. Weisz ne anticipò il concetto in un calcio italiano ancora lontano anni luce dalle innovazioni d’Oltremanica. Più che una novità, la sua fu una mezza rivoluzione che portò alla sua Inter lo scudetto del 1929-30 e due secondi posti. In mezzo, una salvezza-miracolo col Bari nel ’31-32.

Nella stagione ’34-35 aveva accettato la panchina del Novara in Serie B, ma il Bologna lo chiamò dopo quindici giornate a sostituire il connazionale Lajos Kovacs. Weisz chiuse quella stagione al sesto posto, poi mise mano alla squadra e costruì quello che probabilmente è stato il Bologna più forte di tutti i tempi.

 

Nel ’35-36 vinse il suo primo scudetto alla guida dei rossoblù, l’anno dopo fece il bis con una squadra rinforzata dall’arrivo degli uruguaiani, Andreolo su tutti, e dalla scommessa Dino Fiorini, difensore lanciato nell’undici titolare. E fu sempre Weisz a trasformare Amedeo Biavati, a vent’anni ancora mezz’ala e riserva di Sansone, nella più forte ala destra italiana. Fu anche il primo a scegliere la via del preparatore atletico, facendo arrivare dal River Plate l’argentino Pascucci. Il suo Bologna fece davvero tremare il mondo: dopo i due scudetti consecutivi andò a dominare il Torneo dell’Esposizione di Parigi del ’37, vero e proprio Mondiale per club, schiantando il Sochaux in semifinale e il Chelsea (i “maestri” d’Albione) in finale.

 

Era un uomo tranquillo, Arpad Weisz. Uno che faceva filare d’amore e d’accordo stelle come Schiavio, Gasperi, Andreolo, Sansone, Reguzzoni, Gianni, Biavati, con la finezza dello psicologo. Se uno sgarrava, invece di urlargli in faccia lo invitava a cena a casa sua e davanti alla tavola imbandita lo catechizzava con tranquillità. Un uomo colto e sensibile. Che una sera di fine ottobre del 1938, mentre il suo Bologna veleggiava ad alta quota in campionato, andò a salutare in lacrime il presidente Dall’Ara. Le leggi razziali erano alle porte, l’Italia non era più un porto sicuro per gli ebrei. Weisz fuggì a Parigi, passò dall’Olanda, dove prese in mano la squadra del Dordrecht portandola, naturalmente, in breve tempo ad alta quota.

 

L’Olanda sembrava il porto sicuro, e invece i tedeschi arrivarono anche lì. E anche lì lo perseguitarono. Gli tolsero la squadra, la dignità, la voglia di lottare. Lo costrinsero a cercare ancora riparo, stavolta a Budapest. Nella sua Ungheria fu catturato dai nazisti e deportato ad Auschwitz con la famiglia. Non vide più la moglie e i due figli. La loro fine sta scritta sullo Yad Vashem, immenso archivio dove si cerca di ricostruire l’identità di tutte le vittime dell’olocausto. Elena, Roberto e Clara se ne andarono il 5 ottobre del ’42. Arpad il 31 gennaio del ’44. Non un addio, non una riga su un giornale, non una voce nella città che lui aveva portato alla gloria sportiva. Bologna dimenticò in fretta, mentre Weisz cadeva vittima del delirio nazista. Ci abbiamo messo molto, qui a Bologna, a ricordarlo. Anche soltanto a chiederci dove e come fosse finito. Sarà anche vero che non è mai troppo tardo, ma questa è una colpa che ci portiamo addosso. Aver dimenticato Weisz, il più grande di tutti.

 

(30-continua)

 

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