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L’inaDieguato – Granata – 4 Aprile

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Granata. Rosso nobile, tonalità che nel calcio gronda di passione. Sangue e arena. Granata, colore di melograno, sapore dolce e anche tanto amaro solo mezzo secolo fa. Granata il colore dello squadrone del Dopoguerra, una sentenza scritta per qualsiasi avversario, proprio come Grana (e blau) è la bandiera dell’Armada (quasi) Invincibile della nostra epoca. Ho il cuore rossoblù da sempre ma non nascondo l’empatia natiurale per il Torino, primo ospite al Dall’Ara di questo aprile bagnato. Il motivo porta lontano prima ancora che nascessi. E mi riporta a un ricordo infantile, alla storia che mia mamma, non certo con precisione statistica, mi raccontò di quel Torino che dominava un’Europa che cercava di risollevarsi dalle macerie della guerra. Mia mamma che vide il nonno piangere mentre la radio annunciava la tragica scomparsa di quel grande Torino. Il nonno che mai aveva mostrato le sofferenze del confilitto mondiale davanti ai figli. Le lacrime del “nonno Babà”, avevano colpito così tanto la sua primogenita Maria Luisa al punto da incuriosirla. Da indurla a provare simpatia per quella società, il Torino, costretta dal tragico lutto a finire la stagione con i Primavera. Suggestioni forti più che calcio, quelle che la mia mamma mi trasmise. Simpatia per l’eroe romantico, per l’Ettore, emblema della caducità della condizione umana. Qualcosa che il tempo rafforza, un sentimento più forte delle virtù degli innumerevoli “Achille” che imperversano in questo triste periodo della nostra vita.
Granata, nobili decaduti, ma tanta storia e tanta dignità a illuminare la via. Una luce abbagliante, ben più forte dell’idiozia becera e insensibile di quelli a cui basta uno striscione per dimostrare la loro pochezza, per scambiare per coraggio la loro vigliaccheria. La peggio gioventù.
Ci tenevo all’omaggio a un colore nobile che apprezzo, non identificandomi in quei rissaioli per natura che hanno trovato in uno scudetto non assegnato e lontano un buon motivo per dividersi. Bologna e Toro, per me, hanno più somiglianze che distinzioni. Ci sono partite calde e difficili: la sola sconfitta esterna subìta dal Toro di Radice che vinse lo scudetto (gol di Bertuzzo, prima di campionato); la delusione di un Bologna portato in cima alla classifica a Vicenza da un guizzo di Savoldi in anticipò su Bardin e poi precipitato sulla terra, sette giorni dopo, in casa, con i granata (1-3). La prima coppa Italia vinta dai rossoblù, nel ’70. E il drammatico mors tua vita mea di pochi anni orsono (goleada a Bologna e pari a Torino). Ancora: tanti volti in comune: di allenatori, Mondino Fabbri e Gigi Radice in primis, e di tanti giocatori che hanno vestito le due casacche. Giocatori con un preciso Dna: Romanino Fogli, Eraldo Pecci, e ancora Caporale, Cereser, Rampanti, Vullo, Garritano, Pileggi, Dossena, fino ai tempi moderni, fino a Giorgino Bresciani e a “Toro” Torrisi, ai recentissimi Gillet e quel Rubin che personalmente rivedrei volentieri in rossoblù.
Niente da capire. Solo la rivendicazione di un’identità comune – due club che hanno scritto la storia italiana di questo sport – e non le poche note distorte da chi non ha memoria.

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