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Dino Fiorini e Mario Pagotto, i diversi destini dei terzini dello “Squadrone che tremare il Mondo fa”

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Quando le pallottole sparate dai partigiani colpirono Dino Fiorini, decretandone la morte a neanche quarant’anni, in molti a Bologna pensarono che giustizia fosse fatta. L’aspro clima della guerra, le rivolte partigiane contro un regime fascista che continuamente perdeva pezzi e che presto sarebbe caduto, non permisero a molti di ricordare chi fosse quell’ufficiale della Repubblica Sociale di Salò, recatosi nei pressi di Monterenzio forse per trattare una resa, un pentimento, che mai avvenne nei fatti. Soltanto dopo, a guerra finita, sarebbero emersi i dubbi su una morte misteriosa e, soprattutto, sarebbe emerso il ricordo di Dino Fiorini, uno dei più grandi calciatori italiani della sua epoca e punto fermo del Bologna, “lo squadrone che tremare il mondo fa”.

Che fosse un predestinato lo avevano intuito un po’ tutti, quando giovanissimo si era affacciato in prima squadra dopo essersi messo in mostra negli “Allievi” e prima ancora a San Giorgio di Piano, dov’era nato il 15 luglio del 1915. L’aspetto di un modello, alto, robusto e straordinariamente elegante nei movimenti, aveva apostrofato i due terzini titolari, Gasperi e Monzeglio, dicendo che presto uno dei due avrebbe dovuto cedergli il posto. Sarebbe stato profetico: amico di Mussolini, Monzeglio sarebbe stato trasferito alla Roma su espresso desiderio del Duce, cessione che non crucciò troppo il Bologna. Il tecnico magiaro Árpád Weisz, arrivato al posto del connazionale Kovacs, stravedeva infatti per Fiorini, ed era certo che sarebbe stato capace di sostituire più che degnamente un campione del mondo come Monzeglio.

Come spesso sarebbe accaduto, ad un uomo che del resto aveva scoperto nientemeno che il “Balilla” Giuseppe Meazza, Weisz dimostrò di avere ottimo occhio. Fiorini correva i 100 metri in 11 secondi netti, saltava in alto e in lungo come un atleta olimpionico, aveva un’eleganza innata che presto lo trasformò nell’idolo dei tifosi e nel desiderio, neanche troppo segreto, delle tifose. Un campione, un predestinato, che con una completezza non comune per la propria epoca sapeva essere insuperabile in difesa, abile nell’impostare la manovra, incisivo nelle proiezioni offensive.

Tutto il contrario di Mario Pagotto, friulano di Pordenone che, quando Fiorini conquista ventenne il suo primo Scudetto da titolare nella stagione 1935/1936, gioca con assai minori soddisfazioni nel Pordenone. Di anni ne ha 24, è un difensore che ci sa fare, ma tutto può immaginare tranne che quello che effettivamente accade in estate. Il Bologna, fresco campione d’Italia, lo vuole, ed è un trasferimento a cui ovviamente non si può dire di no. Sarà un’onesta riserva, lo pensano un po’ tutti e lui per primo, ma le prime uscite in amichevole sono talmente disastrose che il taglio pare essere dietro l’angolo. È ancora una volta l’occhio sapiente di Weisz a cambiare il destino di un calciatore: in Pagotto intravede qualità ma anche tanta, troppa, paura di sbagliare. Lo esorta a credere in se stesso, a prendere coraggio, e la storia cambia.

Con Fiorini titolare inamovibile, Pagotto prende sempre più spazio al suo fianco: il Bologna scrive la storia, conquista altri tre Scudetti (oltre a quello del 1935/1936, vinto dal solo Fiorini, arrivano i titoli 1936/1937, 1938/1939, 1940/1941) e soprattutto diventa “lo squadrone che tremare il mondo fa” quando fa suo il Torneo Internazionale dell’Esposizione Universale di Parigi nel 1937, quando supera in finale i temibili inglesi del Chelsea. Per Fiorini sono anni d’oro: divenuto testimonial della brillantina Bourjouis, in campo è come sempre fenomenale e fuori, nonostante si sia sposato, continua a fare strage di cuori. È forse questo il motivo per cui Vittorio Pozzo, CT dell’Italia che si prepara a vincere il secondo mondiale di fila in Francia, lo ignora dopo averlo convocato soltanto una volta, peraltro senza avergli permesso di indossare la maglia azzurra.

Capisce di calcio, Pozzo, e soprattutto capisce gli uomini. Sa, il CT, che con lo stile di vita che conduce Fiorini non può essere considerato affidabile, che finirà per avere dei problemi. E in effetti, proprio all’indomani del trionfo azzurro in terra francese, il rendimento di Dino Fiorini cala in modo drastico: nel Bologna Campione d’Italia 1938/1939 gioca infatti appena 7 gare, una miseria rispetto alle 90 delle tre stagioni precedenti e che lo mettono dietro i due titolari, Secondo Ricci e, appunto, Mario Pagotto, il non-predestinato che lavorando duro è arrivato al massimo. La stagione successiva le partite giocate da Fiorini sono addirittura 5, e si comincia a parlare di problemi fisici, forse una malattia venerea contratta a causa di una frenetica vita amorosa.

Anche quando Fiorini torna in campo sembra l’ombra dello splendido atleta di una volta, non più esplosivo come un tempo, meno esuberante e imbottito di antibiotici. Ricomincia lentamente a tornare se stesso, ma rimane un passo indietro rispetto a Ricci e Pagotto, e quando finalmente le cose sembrano tornare alla normalità la guerra interrompe tutto. Weisz è stato allontanato per via delle leggi razziali fasciste, cominciando una fuga impossibile attraverso l’Europa, e quando lo ha saputo si dice che Fiorini, il fascista, abbia pianto per il suo maestro.

Mario Pagotto finisce nella brigata alpina: nel 1944 viene catturato dai tedeschi, fino al giorno prima alleati e adesso furiosi per l’armistizio firmato dall’Italia. Per i “traditori” c’è l’inferno dei campi di prigionia e Pagotto finisce sballottato prima in un campo poi in un altro. Deve inventarsi qualcosa per sopravvivere, quindi fa la sola cosa che sa fare davvero bene: giocare a calcio. Tutti i detenuti vengono a vedere le partite che nei campi gli italiani giocano e vincono contro le rappresentative degli altri detenuti, guadagnandosi il rispetto delle guardie tedesche, che allungano loro qualche razione extra di cibo.

Nel frattempo, ad armistizio avvenuto, l’Italia è in guerra: chi è rimasto fedele a Mussolini, chi lo combatte. A Bologna l’aria è elettrica, Dino Fiorini lo sa ma non è tipo da abbassare la testa, da nascondersi. Si dice che venga catturato in un’imboscata, provi la fuga e venga raggiunto da due colpi alla schiena. Chi invece sostiene, come la moglie, che tenti di passare dalla parte dei partigiani e che questi per errore lo uccidano, non essendo stati informati del suo cambiamento. O che addirittura lo sappiano e lo ingannino, volendolo far fuori dal primo momento per la sua fama, la sua spavalderia, il suo non abbassare mai la testa, forse soltanto per invidia o gelosia.

Nessuno probabilmente lo saprà mai, e in fondo non è così importante. Anche un enorme sbaglio come credere nel Fascismo può essere perdonato adesso; in guerra, invece, nessuno è un eroe oppure lo sono tutti quelli che combattono per qualcosa in cui credono. La vita di Dino Fiorini, il terzino più forte d’Italia, il più amato dalle donne, lo sbruffone attaccabrighe che sudava però sette camicie per la maglia, finisce così.

La vita continua, seppur da prigioniero, per Pagotto: la squadra del suo campo, “quelli di Cernauti”, è considerata invincibile. Gli italiani battono tutti, finendo per trionfare in un incredibile “Torneo dei Lager” e sconfiggendo anche, in un derby ai confini della realtà, “quelli di Lembertow”. La guerra sta terminando, i campi chiudono uno dopo l’altro e Pagotto e i suoi possono tornare a casa dopo aver sconfitto una rappresentativa di prigionieri russi, come promesso e poi mantenuto dai carcerieri tedeschi. Torna a Bologna, “Rino”, e riprende a giocare: farà in tempo a giocare ancora due stagioni, seppur da riserva, togliendosi il gusto di vincere anche una Coppa Alta Italia nel 1946.

La coppia di difensori che il grande Árpád Weisz, scomparso nell’orrore di Auschwitz, aveva unito venne divisa dalla guerra. Dino Fiorini e Mario Pagotto, così vicini eppure così lontani, furono tra i protagonisti della grande epopea del Bologna “che tremare il mondo fa”. Il primo ha vinto quattro campionati e una Coppa Mitropa. Il secondo tre campionati e la Coppa Alta Italia. Hanno giocato insieme e hanno avuto destini diversi. Entrambi erano però presenti al famoso “Torneo Internazionale dell’Expo Universale di Parigi” del 1937, giovani e vincenti come il loro allenatore, Arpad Weisz. Ignari, quanto lui, di come la guerra avrebbe, nel giro di pochissimi anni, cambiato il loro destino per sempre.

Si ringrazia per la collaborazione  la “Collezione Lamebrto e Luca Bertozzi”

foto: bfc.it, minutosettantotto.it

 

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