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Canta che ti passa: Che fantastica storia è la vita

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Valentino Orsini


 

La vita è fatta di scale: c’è chi scende e c’è chi sale. Una partita di calcio, invece, figurati. In una partita di calcio c’è quello che scende, quello che sale, quello che sale e poi capitombola giù, quello che scende e poi sale e poi scende di nuovo,…
Insomma, un bel casino.
Ed è esattamente quello che succede ogni santa domenica, e al Dall’Ara questo proverbio si è manifestato in tutto il suo fascino rossoblù e in tutta la sua disperazione granata quattro giorni fa.
Povero Facebook, social network preso d’assalto dopo i due gol di Iago Falque e Baselli, per poi essere lasciato solo fino al novantesimo: gli avvoltoi, probabilmente, si erano affrettati ad andare al supermercato per accaparrarsi i panettoni in offerta e portarli a Inzaghi e Bigon.
E invece no. Almeno, non è ancora ora, perché il Bologna – dopo il gol di Santander – è salito in cattedra (anzi, sulle scale), ha domato il Toro e ha potuto festeggiare così una grande rimonta. Grande? Sì, perché non se l’aspettava nessuno.

Mi chiamo Riccardo e faccio il dirigente,
e mio padre e mia madre mi volevano dottore.

Almeno sarebbe stato più tranquillo. Il dirigente sportivo è un mestiere pericoloso perché è l’ago della bilancia della società. Cioè, a meno di presidenti nati col cuore del colore cittadino (che ormai non ce ne sono più), il d.s. è raffigurato come primo tifoso: gestisce, oltre agli affari societari, anche il rapporto tra il denaro e il campo. In poche parole, è al centro della piramide. E siccome si trova proprio lì, è anche lui il bersaglio delle critiche appena la struttura inizia a traballare. Un sali-scendi che non si augura a chi ha lo stomaco debole.
Bigon, a Bologna, è il “pupazzo” preferito da parte della tifoseria. Attenzione, però: se Santander fa schifo, è colpa del d.s. che ha preso un bidone; se Santander fa bene, è merito del calciatore (o, al massimo, dell’allenatore). Caro Riccardo, bisogna sempre ascoltare i propri genitori…

Mi chiamo Filippo e faccio l’allenatore,
dopo mille esperienze dirigo il Bologna.

Mille magari no, però anche Inzaghi ha assaggiato quel proverbio citato inizialmente. Non tanto durante la carriera da calciatore (nella quale ha dovuto leggerlo solo una volta), quanto in quella da coach.
L’esperienza coi ragazzini del Milan gli è valsa la promozione in una prima squadra che, probabilmente, è stata una delle peggiori rose rossonere di sempre. E qui si scende. Pippo approda in laguna, dove la città gli farà onore grazie a un arrivo degno del miglior James Bond (sul taxi d’acqua, ndr), e lui ricambierà con una promozione e… mezzo. E qui si sale. Bologna non è allo sfascio, ma vuole assolutamente un cambio di marcia. Il problema è che in pochi conoscono il gioco offerto da Inzaghi col Venezia, e siccome “l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re”, qualche volta sale sul banco degli imputati. Che vuoi, caro Pippo: si sale anche in queste occasioni…

Mi chiamo Arturo, come (circa) il re,
sono l’ultimo di nove difensori.
Su questo scoglio di buona speranza,
scelgo la vita, l’unica salva.

E ha fatto bene a sceglierla, visto che proprio in settimana, Calabresi, ha rilasciato un’intervista in cui confidava che non gli fosse stato dato nulla di sicuro – probabilmente da Roma e Bologna – sul suo futuro. Lui, comunque, si è messo in mostra a Pinzolo (è salito…) e si è giocato le sue carte, guadagnandosi anche una “tirata d’orecchie” da parte del padre, dopo il match contro la Roma. Ora, Arturo ha una propria identità sotto le Due Torri: non aveva niente da perdere, ha dimostrato voglia e la buona volontà lo sta ripagando.

In questi tre esempi sta il significato della canzone: pensi che sia finita, ma è in quel momento che comincia la salita.

Che fantastica storia è la vita.

(Che fantastica storia è la vita – Antonello Venditti)

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