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Mbaye: “Giocavo senza scarpe e ora sono in Serie A, ma ho ancora fame”

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Emanuele Malaguti


Non è facile (quasi) per nessuno diventare un calciatore professionista, ancora più complicato se vieni dall’Africa, dove le possibilità di emergere sono ridotte all’osso, con strutture e attrezzature praticamente inesistenti.
Qui racconteremo la storia di Ibrahima Mbaye, che si è concesso in esclusiva ai nostri microfoni; una storia non strappalacrime, ma che fa pensare e che presenta delle particolarità: soprattutto nei rapporti familiari.

Ibra, così lo chiamano tutti, nasce il 19 novembre 1994 nel dipartimento di Guédiawaye, appartenente alla regione di Dakar, in Senegal.
Fin da piccolo ha una grande e intensa passione: il calcio. Una passione che condivide con tanti, tantissimi bambini, perchè come ci ha detto lui stesso: “In Africa tutti i bambini giocano a pallone. Lì si gioca senza scarpe da calcio e senza palloni veri, si usa quello che si ha. L’unica cosa importante è divertirsi e giocare, il come non è importante”.
Mbaye si diverte e soprattutto impara, iscrivendosi alla scuola calcio fondata da un certo José Mourinho: “L’Etoile Lusitana”. Si capisce subito che Ibra ha qualcosa di speciale e viene notato dal procuratore Beppe Accardi, che lo propone a Piero Ausilio, che lo porta a Milano proprio per pressioni dello Special One, che lo voleva in nerazzurro. “Non ho ricordi particolari di Mourinho -afferma Mbaye- ero troppo piccolo e l’ho visto poche volte”, ma la cosa certa è che José è stato decisivo per la crescita dell’attuale terzino rossoblù.

A Milano viene catapultato in una realtà soffocante e totalmente diversa da quella precedente: “Arrivare in Italia è stato un cambiamento totale: perchè si cambia il modo di vivere, di parlare e di mangiare. Non è stato molto facile adattarsi, però piano piano ce l’ho fatta”.
Ibrahima riesce a superare i primi mesi complicati grazie alla sua grande passione e per la presenza del suo procuratore, che fin da subito lo mette sotto la sua ala protettiva. Il rapporto è speciale, e col passare del tempo Beppe Accardi diventa come un padre per lui, e Ibra si affeziona al resto della famiglia (Antonella e le due figlie Naomi e Talita). I genitori (veri) di Mbaye intanto lo supportano come possono, ma lo stesso padre naturale (Chico), che si era trasferito in Italia per lavoro, dice al figlio: “Ricordati una cosa: considera Beppe come un padre perchè quello che sta facendo per te non sono riuscito a farlo nemmeno io”. La frase colpisce ancora di più Accardi, che senza volersi sostituire al padre naturale, propone a Ibrahima di farsi adottare da lui stesso. La risposta immediata fu scontata: “Capo –così Mbaye chiama Accardi- sarebbe bellissimo!”.  “Ho un ottimo rapporto con Beppe, ci sentiamo quasi tutti i giorni. E’ un rapporto un po’ particolare, è nato 10 anni fa quando arrivai in Italia e ci siamo voluti subito molto bene”.

Ritornando al campo, Mbaye comincia a mettersi in mostra nelle giovanili dell’Inter, e come tutti i giocatori che vengono dall’estero, si deve formare, in tutti i sensi. In primis c’è da capire dove meglio posizionarlo, anche se per lui non è mai stato un grosso problema: “Io ogni anno cambio due ruoli -ride- dipende se mi buttano a destra, a sinistra o in mezzo. A me piace imparare e fare tanti ruoli: fino ad adesso non mi sono fissato su una posizione, perchè più cose posso fare, meglio è, perchè ho più possibilità di giocare. Nell’Inter arrivai come difensore centrale/centrocampista, poi Stramaccioni mi ha spostato terzino sinistro. Nicola in seguito mi ha confermato lì ed ora agisco solo sull’esterno”. Quest’estate Inzaghi lo ha provato anche nei tre di difesa, poi si è deciso di prendere Danilo e Mbaye è tornato esterno nel centrocampo  a 5, come in quel fortunatissimo anno a Livorno, in cui Ibra mise in mostra tutte le sue qualità.

Determinazione, sacrificio e perseveranza sono stati i fattori determinanti per il senegalese, che nel giorno del suo arrivo in Italia cominciò a ripetere insieme al suo padre-procuratore Accardi una frase, che man mano è divenuta un mantra: “Piano piano, si arriva lontano”.

Ecco, caro Ibra, a distanza di 7 anni, sei arrivato lontano?

“Ho fatto un buon lavoro e sono arrivato lontano, ma non dove voglio essere, c’è ancora tanta tanta strada da fare. Ho 24 anni e gioco in Serie A in una grande società come il Bologna, ed è una meraviglia giocare qui, mi fa molto piacere. Però voglio continuare a lavorare e a crescere per arrivare il più lontano possibile. Ho ancora tanta fame e tanta voglia di andare avanti e imparare cose nuove, ambendo a giocare le partite più importanti. Il sogno sarebbe giocare queste partite con il Bologna, perchè no”.

Sguardo rivolto sempre in avanti, non scordandosi mai la strada fin qui percorsa.

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