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Simmetrie – Chiorri tra Macina e Mancini: uno, nessuno e centomila

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guerinsportivo


Si conoscevano, si rispettavano, forse erano incompatibili. Questa è la storia di tre personaggi, vicini e distanti allo stesso tempo. I protagonisti sono Alviero Chiorri, Marco Macina e Roberto Mancini, rappresentanze di un football passato che non tornerà più indietro.

Tutto ha origine circa 30 anni fa. Il luogo è sempre lo stesso, Bologna. Il campionato 1981/1982 si apprestava a iniziare e, come di consueto, in estate era tempo di calciomercato. Alviero Chiorri, dopo diverse stagioni sotto i riflettori di Marassi in Serie B, venne ceduto al Bologna, perché la A meritava uno come lui. Nello stesso arco di tempo, anche un giovane calciatore sammarinese stava compiendo il grande salto. Marco Macina, dopo aver mosso i primi passi con il Tre Penne, era pronto per i rossoblu. Di lui si parlava un gran bene. Ad attenderli, in Emilia, Roberto Mancini. Il Mancio, dopo una gavetta nelle giovanili, era stato promosso in prima squadra. Queste tre storie si intrecciano nello stesso istante, ma l’impatto è diverso.

Difficile decidere chi, tra quei tre, fosse il più talentuoso. Più facile, invece, comprendere le loro ambizioni. La stagione 1981/1982 iniziò bene. All’esordio contro il Cagliari ci fu subito la rete di Chiorri, che così evitò la sconfitta interna. Al contrario delle aspettative, da lì in poi ci fu il crollo. Un infortunio lo costrinse a un lungo stop; tornò in campo solo diversi mesi più tardi, e concluse quell’annata con 13 presenze e l’amara retrocessione in B. La prima della storia felsinea. Non si comportò meglio Macina, arrivato a Bologna con l’etichetta della grande promessa. Poche presenze, solo 8, una nullità per uno che era considerato il futuro del calcio italiano. Da Chiorri, passando per Macina, fino ad arrivare a Mancini. Sicuramente il più maturo dei tre, perché la sua grande stagione individuale servì ad attirare l’interesse della Samp. E a Genova diventò grande, ma questa è un’altra storia.

Pensare che quel Bologna doveva competere per le alte posizioni della classifica, perché il mix che avrebbero potuto dare Chiorri, Macina e Mancini era davvero infinito.

Ma scelsero strade differenti.

Qualcuno si bruciò, qualcun altro ci credette di più. La carriera di Chiorri fu altalenante, fino a diventare indivisibile. Come una figura pirandelliana, tra uno, nessuno e centomila decise di diventare nessuno. Tra le mille personalità che avrebbe potuto scegliere, optò per quella più silenziosa. E, come un semplice silenzio, non emise più alcun rumore. Il suo futuro poteva essere brillante. Bersellini lo fece esordire alla Samp a soli 17 anni; doveva essere l’inizio di tutto, fu l’inizio della fine.

Lo aspettava l’Inter, ma non ci andò mai. «Bersellini mi voleva portare, poi l’Inter prese Beccalossi. Così rimasi a Genova. Alla gente di Marassi piacevo da impazzire, ma sentivo di essere caduto in un gioco più grande di me. Oggi i ragazzi che fanno il loro esordio in A molto presto, sono mentalmente più preparati. Io invece non mi sapevo gestire».

Cadde in qualcosa più grande di lui, non era preparato mentalmente per palcoscenici importanti e la gente ne era consapevole. Non gli importava tanto il risultato finale, il suo principale obiettivo era quello di incantare una platea che però, troppe volte, non comprese il carattere del calciatore. Aveva tutto, doti tecniche e fisiche. Ma volle bruciarsi, perché le responsabilità sono sempre di chi agisce e di chi decide di comportarsi in un certo modo. Per capire Chiorri basta ricordare cosa disse quando rifiutò la sua prima e unica convocazione nella Nazionale giovanile: “Ma siete pazzi, io devo andare al mare”.

A Bologna, con i suoi gemelli Macina e Mancini, il risultato fu disastroso. I 3 moschettieri avrebbero dovuto tirar fuori le spade, si limitarono a difendersi senza attaccare.

Anche Macina, che tecnicamente era considerato più forte di Mancini, si perse. Si bruciò a soli 25 anni. Era pieno di etichette, voleva semplicemente vivere come un ragazzo della sua età, voleva divertirsi senza pensare troppo al futuro. Si dimenticò solo un piccolo particolare: non era come gli altri, aveva un gran talento che stupì gente come Nils Liedholm. “Un giocatore più veloce con la palla che senza, mai visto”, dirà in seguito.

Era un esterno tecnico, veloce e imprevedibile. Se partiva, non lo prendevi più. Ma un grande giocatore doveva avere anche altre virtù, oltre quelle tecniche. “Capii che un grande calciatore non si vede solo dalla tecnica, ma anche da tanto altro. E Mancini, per questo motivo, era più forte di me”. 

Ebbe ragione, perché Mancini fu il più determinato a tenere per il guinzaglio una vita che aveva sempre sognato. L’esordio di Mancini avvenne, nel 1981, in una gara di Coppa Italia. Subentrò a Chiorri, quasi come un passaggio di consegne anticipato. Si, anticipato. Perché quella stagione doveva essere l’ascesa di tutti e tre i protagonisti. Fu così solo per il Mancio. Quasi sempre in campo, una decina di gol e tante buone impressioni. La chiamata di un’altra squadra era vicina, arrivò puntuale: la Samp si convinse a puntare su di lui. Ma questa è un’altra storia, seppur parallela. 

Bologna fu la meta di mezzo per i tre protagonisti: Macina, dopo un biennio in rossoblu, iniziò la propria discesa all’Arezzo. Chiorri e Macina andarono alla Samp: il primo perché non aveva convinto la dirigenza felsinea, il secondo perché meritava una grande occasione. E non la sbagliò, a differenza del compagno che soffrì sempre di più il dualismo con il terribile ragazzino di Jesi. Dopo poco tempo, le strade dei due si divisero, perché la rockstar fu costretta ad andare alla Cremonese nell’operazione che avrebbe portato Gianluca Vialli in blucerchiato.

 «La Sampdoria stava crescendo, ma io non andavo di pari passo e a un certo punto il presidente Mantovani fu costretto a cedermi alla Cremonese. Quando mi salutò aveva le lacrime agli occhi e mi disse: “Alviero, sei stata la più grande delusione della mia vita”. Quella frase me la sono portata dentro fino all’ultimo giorno che sono sceso in campo».

L’ennesimo passaggio di consegne per il marziano. Nel frattempo, Marco Macina appese gli scarpini al chiodo. Un infortunio non recuperato bene lo costrinse anzitempo ai box. Lui, che in soli 8 anni passò da una speranza a una dimenticanza.

In questo racconto il tema fondamentale è quello della mentalità, vincente per qualcuno e perdente per qualcun altro. Chiorri e Macina arrivarono a Bologna per farsi le ossa, ma alla fine quest’ultime si ruppero bruscamente. Dall’altra parte, un Mancini determinato sacrificò le passioni di un qualunque ragazzo per emergere e diventare qualcuno. 

Storie opposte e parallele. La storia di tre gemelli che, a causa di scelte diverse e contrastanti tra di loro, presero strade diverse. 

 

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