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Walter Sabatini, d’altri tempi

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In un fresco e umido pomeriggio di fine settembre arriva la notizia che non ti aspetti, una di quelle bombe che fanno crollare i muri. Da cima a fondo. Walter Sabatini si è dimesso da dirigente del Bologna. Lo ha comunicato a Saputo, lo ha comunicato alla squadra e a tutta la società. In rigoroso silenzio, com’è nel suo stile. Per ribadire la sua grandezza, l’essere diverso dagli altri, sempre e comunque, son bastate semplici e forti parole: “Pago io”. Fredde, ti penetrano e ti pongono quesiti irrisolti, frustranti. Come se la brutta figura di Empoli non avesse già fatto crollare un castello che, dopo quest’altro scossone, pare essere sempre più in bilico. Sabatini se ne va e lo fa senza alcun rumore, da uomo vero. Da uomo che, nonostante la sua età continua a saper riconoscere i propri errori. Discutere sulle colpe, ora, ha poco senso. Che siano di Sabatini, di Fenucci o di “una squadra costruita a c…” 

Bologna perde un signore, un punto di riferimento, una figura che con il passare del tempo ha resistito all’evoluzione, spesso sbagliata, del sistema sportivo. Integro, e per questo apprezzato. Dagli inizi dietro la scrivania, quasi trent’anni fa alla Lazio, passando per i campi di Trieste, Arezzo, Perugia, Palermo, Roma, Inter e Sampdoria, fino ad arrivare al presente che presente non lo è più. Sabatini è stato in questi anni un antidoto per il calcio, soprattutto per il suo lato oscuro e corrotto che ha cercato di spegnere e annullare la parte più pura. “La Superlega mi fa schifo, è un ritorno al Feudalesimo”, disse qualche tempo fa esponendosi, sempre a tono, contro l’ultima delle assurde pensate dei piani alti. Perché stare zitti o seguire la massa è sempre facile, o forse la soluzione più comoda: Sabatini non l’ha mai fatto. Non per far soddisfare qualcuno ma per non far incazzare sé stesso, per non snaturarsi mai. Nel bene e nel male. Ne ha passate tante, belle e brutte, come la malattia che lo colpì qualche tempo fa. “Sono morto e ho visto il paradiso, sembrava un supermercato”, affermò più tardi. Un supermercato, il simbolo degli ultimi suoi anni: un lavoro egregio, ovunque sia passato e dovunque la cenere di una sua sigaretta sia caduta. Un mozzicone di qua e un mozzicone di là, ma sempre riconoscibile. Sguardo glaciale, penetrante quasi a voler entrare nell’inconscio altrui, sempre fiero e a testa alta. Una pacca sulla spalla, come un padre, perché Sabatini è sintomo di sicurezza e affidabilità.

“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”. Recitava così Pier Paolo Pasolini, riproposto due anni proprio da Sabatini in una calda estate bolognese. E’ l’esempio lampante di questo spettacolo, che ha resistito a intemperie, scossoni. Si è assunto le proprie responsabilità e ha lasciato il Bologna, in silenzio. Come un gran signore, di quelli d’altri tempi.

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