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Senza vincoli contrattuali: Armando Izzo

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Dimmi come difendi e ti dirò chi sei. Si potrebbe riassumere così il vecchio pregiudizio che divideva gli allenatori in due grandi categorie, a seconda del credo difensivo. I “catenacciari” e provinciali della difesa a cinque, contro gli illuminati della linea a quattro. Dalla divergenza tattica sono nati diversi miti, alcuni leggendari, come quello secondo cui fosse impossibile vincere in Europa schierando la difesa a tre. Come ogni teoria strampalata anche questa si basava su una serie di dati inconfutabili ed indiscutibili. Poi, in una sera di primavera, il calcio giocato si è ribellato alle elucubrazioni dei teorici. Thomas Tuchel, subentrato in corsa sulla panchina del Chelsea alla fine di gennaio, in appena quattro mesi riporta la Champions League a Londra dopo nove anni. La seconda nella storia dei Blues. Nota a margine: il Chelsea di Tuchel vince la Coppa dei Campioni difendendo a tre. E attaccando in undici. Morale: più che il numero di centrali conta l’atteggiamento; puoi dominare una partita con cinque difensori, come metterti a quattro e correre dietro alla palla senza prenderla mai. Lo schema è un punto di partenza, poi serve tanto altro.
 
Esattamente quello che ha fatto Sinisa Mihajlovic dopo la Caporetto di Empoli. Ha cambiato modulo, i tre trequartisti succhiavano equilibrio alla formazione come vampiri, senza dare in cambio però della solidità. Il Bologna è migliorato nella fase difensiva, ora sa interpretare bene anche i momenti della partita in cui è necessario tirare i remi in barca, ma appena si placa la tempesta è abile a ribaltare il fronte. Ancora di più: la ciurma del 3-4-2-1 non si accontenta di fare razzia nell’accampamento nemico per poi battere in ritirata. Quando la partita lo permette, Sinisa chiede ai suoi di alzarsi e di andare a respirare un po’ di aria buona nell’altra metà di prato. Perché quando passi troppo tempo in apnea nella tua area rischi di perdere lucidità, inizi ad avere qualche vertigine ed è proprio allora che ci può scappare il guaio. Sono però le fondamenta a permettere alla torre di toccare le nuvole. Senza una base solida, un grattacielo non è più ambizioso, solo pericolante. Allo stesso modo una squadra di calcio.
 
Il Bologna fatica a rimanere alto perché i difensori tribolano nel gestire tanto campo scoperto alle spalle. In fase di costruzione i tre centrali si aprono su tutta la longitudine del prato, con i quinti che esplorano le fasce. Il pallone diventa di cristallo: basta una giocata sgrammaticata per apparecchiare il banchetto agli avversari. Appena si perde il possesso bisogna decidere in una frazione di secondo: correre in avanti e riconquistare palla a tutti i costi, oppure scappare in una corsa disperata verso la propria porta. La busta numero uno non permette un istante di esitazione ed equivale a rilanciare la scommessa. La numero due, la ritirata, spezza i polmoni alla squadra e può essere una soluzione di emergenza, non una consuetudine. In sintesi: per tenere la squadra alta serve che i difensori non abbiano paura di palleggiare sull’orlo del baratro, e che una volta persa palla siano pronti ad aggredire in avanti. Basta che uno si faccia prendere dal panico e batta in ritirata da solo, e sono dolori per tutti.
 
Intanto domenica, ancora all’ora di pranzo, il Bologna è chiamato a Torino. Proprio nel momento in cui Mihajlovic sta approfondendo il 3-4-2-1, che ormai è ben più di una toppa sulla falla, arriva Juric.
 
Discepolo di Gian Paolo Gasperini nella sventurata campagna interista e poi a Palermo, Ivan Juric è un integralista della difesa a tre. Segue alla lettera la dottrina del proprio maestro: squadra sempre alta e aggressiva. I tre centrali spingono la formazione in avanti dalle retrovie e la schiacciano verso la porta nemica. In campo si creano delle coppie e l’incontro si frammenta in una serie di duelli. Ognuno deve seguire il proprio uomo a tutto campo, così da non lasciagli mai tempo e spazio per ragionare. Se si aggiunge che le squadre di Juric — come quelle di Gasperini — tengono un ritmo indiavolato e non cedono un centimetro, si ha un’idea di come mai quei novanta minuti per gli avversari durino giorni.
 
Grazie al metodo Juric il Torino si affaccia ad una stagione tranquilla dopo le ultime salvezze tribolate. La squadra ha assorbito in fretta le richieste del tecnico e le prestazioni testimoniano l’intesa fra la truppa e il comandante. Ma nessun matrimonio è perfetto.
All’approdo di Juric sulla panchina del Toro, Armando Izzo, sembrava essere il profilo ideale a cui appuntare i galloni di leader difensivo. Il rapporto era consolidato: si erano già incontrati a Genova, dove il tecnico aveva avuto molti meriti nell’ascesa del centrale napoletano.
Izzo è confezionato su misura per completare una difesa a tre. Impara il mestiere nella bottega più dura e pregiata, nel Genoa di Gasperini — e non è un caso. Nel giro di un anno conquista il posto da titolare, e si dimostra perfetto per interpretare il calcio arrembate che predica il maestro. Dopo quattro stagioni passa al Torino, dove può proseguire il cammino tattico che ha iniziato in Liguria. In panchina infatti siede Walter Mazzarri, altro allenatore devoto alla difesa a tre.
La prima stagione di Izzo in maglia granata è probabilmente la migliore della carriera. Gioca 37 partite, stabilisce il proprio record di reti (4) e guadagna la Nazionale. Nella successiva si conferma su buoni livelli, ma alla terza cambia il contesto e Armando ne risente. Cairo affida la guida tecnica a Marco Giampaolo, che porta i propri principi di gioco, opposti rispetto a quelli di Mazzarri. Giampaolo spende giorni e giorni di ritiro sui movimenti della linea difensiva. Pretende che si muova come un sol uomo e che segua il fuorigioco come il canto delle sirene. Gli inseguimenti a tutto campo sono banditi, la marcatura a uomo non esiste nemmeno sui calci d’angolo. Izzo vede il terreno, prima solido sotto i suoi piedi, trasformarsi in palude e rimane impantanato.
Con l’arrivo di Juric i cocci sembrano ricomporsi: torna il vecchio regime e tutto va di nuovo a posto. Invece no, va ancora peggio. Fra il maestro e l’allievo qualcosa si rompe. Secondo un’indiscrezione riportata da Tuttosport i due sarebbero venuti allo scontro in seguito alla panchina mal digerita dal difensore, nell’amichevole precampionato di Rennes. Sarebbero volate parole forti: non ti riconosco più, non hai più fame, ti sei imborghesito. Da lì il clima sarebbe divenuto da separati in casa. Le voci che vedrebbero come inevitabile la partenza del difensore già a gennaio sono sempre più accreditate.
 
Armando Izzo sarebbe la tessera ideale per completare il mosaico della difesa rossoblù. Incarna per caratteristiche la combinazione fra il difensore vecchio stampo ed il centrale più moderno. Alto, forte fisicamente e aggressivo, sempre pronto quando occorre “farsi sentire”; allo stesso tempo però è rapido, accetta i rischi, gradisce spingersi in avanti anche palla al piede e coltiva il vizio del gol. Si esalta nel duello uno contro uno con l’attaccante avversario: lo cerca, aggredisce in avanti e tenta sempre l’anticipo. A volte troppo. Il motivo principale per cui Izzo risulta molto più adatto ad una difesa a tre risiede nella sua esuberanza. Cercando sempre di anticipare l’avversario, quando non intercetta il pallone, si ritrova fuori posizione e apre una breccia nel vallo difensivo. Il centrale in più, pronto come il vecchio libero a chiudere la falla, è la polizza contro le sue sortite azzardate.
Il Bologna, per come interpreta la fase difensiva, offrirebbe ad Izzo le condizioni migliori per far rendere i suoi talenti. I rossoblù accettano il gioco maschio, non fuggono di fronte ai contrasti e sanno arroccarsi in area di rigore per difendere di posizione. Izzo porterebbe in più l’impulso ad andare a prendere gli attaccanti avversari quando ancora sono girati spalle alla porta, così da ottenere un vantaggio nel confronto diretto. E anche se ogni tanto dovesse esagerare nello spingersi in avanti, chi meglio del Pitbull a fare la guardia?
Oltre alla fase difensiva ne beneficerebbe anche la costruzione. Pur non possedendo il lancio raffinato di Bastoni, Izzo può aiutare i centrali del Bologna ad uscire dallo stallo che si crea quando entrano in possesso di palla. Se infatti lo scarico semplice sui mediani viene coperto dal pressing avversario, nessuno dei difensori ha nelle proprie corde il fendente in grado di forzare l’assedio. Izzo, che se c’è una cosa in cui non difetta è la personalità, non ha problemi a farsi dare il pallone quando scotta e condurlo a testa alta fino a centrocampo. E se non lo fermano con le cattive anche ben oltre.
A 29 anni compiuti, le 195 presenze in Serie A e l’esperienza maturata giocando in una difesa a tre, ne fanno il centrale perfetto per portare da subito un significativo contributo alla causa rossoblù; ma anche l’uomo giusto su cui puntare per le prossime stagioni, contando che Medel non è più un ragazzino ed andrà in scadenza a giugno. In più, proprio perché è reduce da due stagioni sottotono, si può fare certo affidamento sulla sua grande voglia di rivalsa. Ha solo bisogno di un ambiente che scommetta forte su di lui, che gli dia l’opportunità di dimostrare che se cresci nel posto e nel modo in cui è cresciuto lui puoi forse avere successo, arricchirti, ma imborghesirti mai.

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