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Luca Vigiani, il Cavallo alato, corre ancora

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Bologna Fc 1909


Mi chiamo Agnese e vivo a Livorno. Ho un figlio, un mutuo, diversi sogni chiusi nell’armadio (nel cassetto non mi entrano), tanti pregi, altrettanti difetti. Fra questi (pregi o difetti?), c’è che non so stare zitta e stamani appena sveglia ho sentito l’esigenza di dovervi raccontarvi una storia. Questa storia, parla di una ragazza che aveva una grande passione, il calcio. Lei non era certamente buona con i piedi, ma il cuore le batteva forte quando varcava i cancelli dello stadio Armando Picchi di Livorno. Impensabile che fosse lei a praticarlo, ma quanto si emozionava quando la sua squadra del cuore faceva goal. Un giorno, pensò che quello che davvero ammirava non era lo sport in sé ma le persone che ne facevano parte. Soffriva quando un determinato giocatore non scendeva in campo, si preoccupava quando un brutto fallo sulla gamba faceva temere il peggio.

Perché, pensò, una squadra non è fatta di numeri, ma di uomini che per indossare la maglia da titolare avevano fatto dei sacrifici. Non tutti allo stesso modo, ma questa è un’altra storia che esula dallo sport. Quegli uomini avevano una famiglia a casa, una moglie innamorata, una madre apprensiva, un padre severo, un fratello scapestrato. Esattamente come me, anche loro avevano la loro storia. Il Livorno non era solo una squadra composta da undici giocatori ma una formazione tenuta insieme da tutte le persone che lavoravano per essa. Fra di loro, spiccava un fiorentino, veloce, caparbio, determinato, silenzioso, lavoratore. Luca Vigiani, questo il suo nome, arrivò a Livorno insieme al Mister Walter Mazzarri. Come andò a finire quell’anno lo sappiamo un po’ tutti.

 

Cinquantacinque anni di agonia per tornare in Serie A, una stagione che lo aveva visto fra i protagonisti in maniera assoluta. Cavallo alato Luca Vigiani, così lo presentava lo speaker quando decantava la formazione prima di una partita. Mai soprannome fu più azzeccato: volava davvero sulla fascia, non si risparmiava mai e a testa bassa faceva quello che in campo si chiama il lavoro sporco. Sul tabellone non finiva poi il suo nome ma quello di chi poi la palla la metteva in rete. E’ il calcio, è così. Ma dentro di me io sapevo che il merito era anche suo e che gioia quando a fare goal era proprio lui. Volevo però che lo sapesse che c’era qualcuno che non chiedeva ai genitori di comprargli la maglia di Igor Protti o Cristiano Lucarelli, io sulle spalle desideravo indossare il suo nome perché per me rappresentava esattamente quello che io sarei voluta diventare. Lui per me era un esempio di resilienza, di sacrificio, un uomo che desiderava una gloria costruita grazie al duro lavoro.

Ricordo che gli regalai un peluche, un cavallo alato che non fu facile da trovare all’epoca; chiamai tutti i negozi di giocattoli presenti a Livorno, Pisa, Cecina. Lui giocava a Reggio Calabria e glielo recapitai in modo rocambolesco sfruttando le trasferte della sua squadra in terra toscana. Aspettavo tutto l’anno Empoli- Reggina solo per poterlo incontrare e stringergli la mano. Volevo che continuasse a sapere che io c’ero. Non ero una fan, non lo sono mai stata e mai mi definirò tale. Avete mai avuto stima di una persona? Se vi è capitato allora potete capire parola per parola tutto quello che io ho vissuto e sto ancora vivendo.

Ed eccoci arrivati a oggi, quasi vent’anni in più eppure, sono ancora qui, a mettere nero su bianco le emozioni che domenica ho vissuto allo stadio di Bologna. Io non potevo mancare alla sua prima partita da allenatore in Serie A. Era lui al comando e non so quanto ho urlato dalla tribuna perché la sua squadra vincesse. La fatica dei quattrocento chilometri in un giorno completamente svanita dall’orgoglio che provavo nell’essere lì a tifare per lui. Potrà sembrarvi tutto molto esagerato e difficile da capire, ma per chi ama questo sport dovrebbe essere un’ovvietà quello che vi sto raccontando. Io credo fermamente che il calcio sia tutto quello che non si vede.

Il calcio è l’amarezza che si respira negli spogliatoi a seguito di una sconfitta. Il calcio è l’ansia nell’attendere la convocazione fra i titolari. Il calcio è la famiglia che ti aspetta a casa e ti sostiene. Il calcio è girare l’Italia condannandosi ad una vita da nomade. Il calcio non è una macchina sportiva parcheggiata fuori dal campo di allenamento Il calcio è una persona che ha dato tutto e non può pensare di non ricevere indietro niente.

Io sono qui a dirvi che lui merita tutto quello che ha costruito, che le persone che ieri in tribuna urlavano il suo nome sono la ricompensa per merita; non è la vittoria in sé, avrei detto la stessa cosa se fosse andata diversamente. Ma non è stato così perché poteva andare solo in quella maniera. Ieri ho visto anche lui in campo, ieri ho visto il Luca Vigiani che a Como, nel lontano Marzo 2004, segnò il 4-3 nei minuti di recupero finali dopo aver corso chilometri interi su quel campo. Parlo di emozioni forti. Parlo del calcio che mi piace, quelle delle persone che non lo fanno per i soldi ma perché non possono fare altrimenti. E parlo infine di una splendida famiglia, la sua, che ha capito che la mia non era una fissazione adolescenziale o un capriccio dettato da una cotta momentanea ma semplicemente un attestato di stima nei confronti di chi al calcio vuole bene veramente.

A mio figlio dico sempre una cosa: qualsiasi cosa deciderai di fare nella vita, che sia il panettiere, il ballerino o l’ingegnere per me andrà benissimo purché lo faccia con serietà. Come ha fatto Luca Vigiani. Mi reputo fortunata ad avere l’affetto suo e dei suoi cari. Nell’abbraccio che ieri sono riuscita a dare a lui e a sua moglie c’era tutto questo; ma nonostante ciò non mi è bastato ed è per questo sono qui a scrivervi oggi. Non ho nessuna intenzione in particolare se non quella di farvi vedere quest’uomo sotto una luce diversa, che magari non conoscevate. Il calcio è fatto di tante persone e lui è una di queste. Questa storia, la sua storia, meritava quindi di essere raccontata. E che ve lo dico a fare, sono certa che siamo appena all’inizio.

Saluti da Livorno,

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