Seguici su

Bologna

Amarcord – Dal Littoriale al Dall’Ara: iconografia di uno stadio

Pubblicato

il

crediti immagine: FIGC

Foscolo nel carme Dei sepolcri, composto nel 1806, celebra, in opposizione all’editto di Saint Cloud emanato da Napoleone nel 1804 che imponeva lo spostamento dei cimiteri fuori dalle mura cittadine e l’omologazione delle lapidi, l’importanza delle tombe per il mantenimento della memoria. Il tema funerario è stato, come dimostrato anche dalla succitata legge, un argomento di discussione centrale nel decennio a cavallo tra ‘700 e ‘800, in particolar modo in Francia e Inghilterra e Foscolo, traferitosi nel 1804 a Valenciennes, ebbe modo di entrare in contatto con questa realtà e assorbire l’insegnamento della letteratura sepolcrale inglese. Partendo dalle riflessioni sollevate dal poeta è possibile, però, estendere il concetto dai sepolcri ai monumenti, concreti o astratti che siano, della reminiscenza: tutto ciò che serve a ricordare e assicurare l’imperitura memoria può assumere questo valore testimoniale, anche la scrittura. Come le tombe ricordavano a Foscolo i grandi del passato, così le sue pagine ricordano a noi, oltre due secoli dopo, la Zacinto in cui il suo corpo fanciulletto giacque, suo fratello Giovanni e il dolore provato da lui, come da molti suoi coevi, conseguente al tradimento delle aspettative di Napoleone. E perché è così tanto importante il ricordo? Perché la storia, come spiegato da Machiavelli in molte sue opere, da Il principe ai Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, è una maestra di vita, una guida in grado di farci riflettere sul futuro partendo dal passato e solo ricordando vite da noi non vissute e immergendoci in esse possiamo migliorarci e migliorare il futuro. Per questo nasce questa rubrica: per ricordare eventi passati mettendoli in continuo dialogo con il presente, auspicando il meglio per l’avvenire. Infine, è necessario ricordare che lo sport altro non è che uno dei molti prodotti culturali prodotti dall’uomo ed è composto da persone con le loro storie personali, le loro passioni e i loro dolori che, come spesso viene dimenticato, non sono semplici figure bidimensionali, bensì individualità critiche e sfaccettate. Con l’auspicio di poter regalare a voi lettori qualcosa con questi racconti.

Le grandi opere architettoniche sono da sempre emblemi del potere, sia esso politico o religioso, in grado di ribadire talvolta delle gerarchie, talvolta lo zeitgeist dell’epoca in cui vengono realizzate. La divinizzazione delle piramidi nell’antico Egitto, così come la costruzione nel 1953 di Kijong-dong in Corea del Nord, villaggio fantoccio a fine propagandistico al confine con la Corea del Sud, sono solo due testimonianze di come l’utilizzo simbolico dell’edilizia sia perdurato lungo i secoli. L’architettura è in grado, più di ogni altro prodotto dell’intelletto umano, di sopravvivere ai suoi creatori e, a meno di sfortunate congetture storiche, rimanere un visibile segno di potere e di epoche passate. Non è un caso che le dittature moderne abbiano dato grande importanza a quest’arte: durante il fascismo fu attivissimo il movimento razionalista, il cui manifesto fu stilato dal MIAR, mentre nella Germania nazista operò Albert Speer, le cui opere sono ancora fonte di grande scandalo[1].
Concentrandoci sull’architettura fascista è facilmente riconoscibile, come in tutta la sua ideologia, un ritorno al classico e in particolare all’Impero Romano: una delle grande fascinazioni di Mussolini erano gli anfiteatri, edifici pubblici volti a ospitare eventi, come gli spettacoli gladiatori, in grado di influenzare il popolo attraverso l’implicita espressione delle gerarchie di potere. Quale tipo di evento poteva nell’Italia del ventennio unire e appassionare una grossa quantità di persone e venire al contempo strumentalizzato con la propaganda meglio del calcio? Questo sport non era amato da Mussolini, troppo divisivo a causa delle tifoserie e di importazione inglese, ma egli non ne poteva ignorare la diffusione capillare nella vita degli italiani. Questo insieme di congetture portarono a un evento storico datato 31 ottobre 1926, quarto anniversario della nomina di Mussolini come primo ministro: l’inaugurazione del Littoriale di Bologna, ora Stadio Renato Dall’Ara, definito all’epoca «primo anfiteatro della rivoluzione fascista». Lo stadio fu fortemente voluto da Leandro Arpinati, gerarca fascista bolognese legato sia ai fatti di Palazzo d’Accursio che allo Scudetto delle pistole del 1925, all’epoca presidente della FIGC e la sua collocazione ha un valore simbolico: esso è, infatti, una sorta di ponte in grado di collegare il santuario di San Luca e il cimitero della Certosa. Porre un monumento in un punto nevralgico, anche a livello spirituale, della città è emblematico del valore conferitogli. Ma l’importanza del Littoriale non poteva essere solo metaforica, andava bensì esplicitata attraverso il più classico espediente delle dittature di ogni epoca: il culto della persona. Venne, infatti, edificata nello stadio la Torre di Maratona contenente in un’abside una statua bronzea di Mussolini a cavallo in grado di svettare sul campo.
Al Littoriale si legano, però, due eventi storicamente e socialmente rilevanti simbolo dello spirito indomito e resistenziale caratteristico di Bologna. Durante le celebrazioni per l’inaugurazione dello stadio Mussolini, mentre viaggiava su un auto scoperta, subì un attentato da cui uscì illeso: un proiettile sparato dal centro della folla attraversò la giacca del Duce, ma l’imprecisione della traiettoria lo portò a conficcarsi nella portiera della macchina. L’autore materiale del gesto fu il quindicenne anarchico Anteo Zamboni, il quale venne catturato immediatamente, curiosa ironia del destino fu il padre di Pasolini il primo a braccarlo, e linciato. Questa barbara risoluzione dei fatti non bastò a placare le ire di Mussolini, appariva, infatti, altamente improbabile che il ragazzo fosse riuscito a organizzare l’attentato da solo: seguirono processi sommari e condanne al padre, ex anarchico convertitosi al fascismo, alla madre e ai due fratelli maggiori di fede antifascista. Questo avvenimento diede al regime il pretesto per promulgare le Leggi per la difesa dello Stato, mentre a Zamboni furono intitolate nel 1958 le omonime Mura nel quartiere San Vitale.
Il secondo evento è, invece, appena successivo alla Seconda guerra mondiale e riguarda la statua equestre di Mussolini. Caduto il regime essa venne immediatamente rimossa e dalla sua fusione lo scultore Luciano Minguzzi ottenne il bronzo necessario per realizzare le due statue di partigiani poste a Porta Lame in onore della battaglia partigiana che lì si svolse. Questo gesto, non privo di una certa ironia, fu l’atto che sancì la definitiva defascistizzazione di uno dei più grandi centri di aggregazione della città di Bologna: il suo stadio.

[1] A tal proposito si vedano le conseguenze delle dichiarazioni di Lars von Trier durante la presentazione di Melancholia al Festival di Cannes del 2011.

Continua a leggere le notizie di 1000 Cuori Rossoblu e segui la nostra pagina Facebook

E tu cosa ne pensi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

adv
adv

Facebook

adv