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Amarcord – Resistenza e persistenza: il Bologna e la Seconda guerra mondiale

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La memoria degli esseri umani è terribilmente corta e troppo spesso la storia viene ignorata. Al termine del primo conflitto mondiale il patriottismo che aveva animato le vicende di inizio Novecento, invece di venire acuito, è stato accentuato nei suoi lati più deleteri trasformandosi in nazionalismo. Nella fase di ricostruzione post-bellica in Italia e in Germania si svilupparono dei regimi totalitari attorno alle figure carismatiche e violente di Mussolini e Hitler, mentre in Spagna, al termine di una guerra civile, nel 1939 prese il potere Franco e lo esercitò in maniera dittatoriale fino alla sua morte nel 1975. L’Unione Sovietica con l’ideale dell’internazionalismo era schierata su posizioni antitetiche, ma il governo di Stalin, salito al potere nel 1924 dopo la morte di Lenin, fu segnato in egual misura da repressioni violente e dalla limitazione di molte libertà dell’uomo. In un contesto così funesto, dopo numerosi avvenimenti che non è qua possibile enunciare, la Germania nazista compì alcuni atti forti e dimostrativi come l’annessione dell’Austria e della regione dei Sudeti, avvallati dalla politica dell’appeasement voluta da Francia e Regno Unito, dilagando poi con la presa del resto della Cecoslovacchia e l’invasione della Polonia l’1 settembre 1939, evento che diede il via alla Seconda guerra mondiale. Le analogie con la Prima furono molteplici: l’idea errata di una guerra lampo rappresentata dalla strategia del Blitzkrieg tedesco, il culto patriottico estremizzato come evidenziato dalle 23 ricorrenze di termini legati alla patria e di possessivi riferiti ai cittadini come “nostro” o “tuo”, oltre che al continuo utilizzo del “noi” per far sentire l’ascoltatore coinvolto nelle scelte, utilizzati nella dichiarazione di guerra da Mussolini e la distruzione di un’intera generazione di giovani, a cui va, però, aggiunto lo sterminio che avvenne nel sistema concentrazionario. Ma se nella Prima guerra mondiale le divisioni interne a uno stesso paese erano tendenzialmente legate alle tecniche di guerra o a categorizzazioni culturali, nella Seconda esse sono state generate da contrapposizioni ideologiche: fascisti e antifascisti, repubblichini e partigiani e le brigate partigiane talvolta in contrasto tra di loro. Lo scontro, quindi, era sia esterno che interno.

Tra gli oltre 60 milioni di morti stimati nel corso del conflitto solo due sono legati alla storia del Bologna, ma molti furono gli antifascisti e i partigiani, come si confà alla natura stessa della città. Ancora una volta per rifuggire ogni possibile celebrazione eroica delle gesta militari, laddove di eroico non c’è nulla, le vicende che verranno raccontate qua nulla hanno a che fare con il campo di battaglia, ma solo con il lato umano dei protagonisti.
I due che persero la vita sono Árpád Weisz[1] e Dino Fiorini, le cui storie sono profondamente diverse, ma legate tra di loro: il primo scappò dall’Italia a seguito delle leggi raziali del 1938 e, dopo un pellegrinaggio tra Francia e Olanda, morì ad Auschwitz nel 1944, il secondo, invece, che sotto la guida dell’allenatore magiaro ottenne grandi risultati, fu un fervente fascista e repubblichino e trovò la morte nello stesso anno, in circostanze mai del tutto chiarite, senza che il suo corpo sia mai stato ritrovato. Nella stessa squadra militava anche Mario Pagotto, pari ruolo di Fiorini, ma di diverso credo politico: egli, infatti, arruolato nella brigata alpina venne arrestato e deportato a Hohenstein dall’esercito tedesco pochi giorni dopo l’armistizio. In contemporanea all’avanzata sovietica in Europa, egli venne trasferito insieme ai suoi compagni di prigionia prima a Bialystok, poi Odessa e infine a Cernauti. Nel lager di quest’ultima città Pagotto insieme ad altri reclusi italiani creò una rappresentativa calcistica e, dopo alcune partite tra prigionieri, venne organizzato un torneo tra campi di concentramento. La squadra di Cernauti rimase imbattuta destando molto clamore, al punto che i loro aguzzini gli proposero un incontro con una rappresentativa dell’Armata russa e qualora avessero vinto sarebbe stata concessa loro la libertà. Pagotto e i suoi compagni vinsero 6-2 e tanto fu il giubilo dell’esercito tedesco che essi vennero realmente rilasciati. Come lui anche Giuseppe Della Valle, leggenda del Bologna negli anni Trenta, sopravvisse alla prigionia in un campo di concentramento, mentre furono partigiani Algiso Toscani e Dino Ballacci. La storia di quest’ultimo è simbolica della condizione in cui versavano molti dei sopravvissuti. Ballacci nel luglio del 1944 si arruolò come partigiano in Friuli nella brigata Osoppo, la stessa in cui militò Guido Pasolini, figlio di Carlo Alberto e fratello di Pier Paolo,[2] e sul Carso combatté fino al termine della guerra. Tornato nella sua Bologna appena ventunenne portava con sé i segni fisici e mentali della vita al fronte, al punto che l’allora presidente Dall’Ara annullò il contratto del giocatore, salvo poi riprenderlo in squadra. In campo Ballacci fu un giocatore aggressivo, al limite del violento, come riportato dalle cronache dell’epoca e dalle sue stesse parole: «io non riuscivo mai a fare tutte le partite, perché ero spesso squalificato. Se uno fingeva di ricevere un fallo, dopo lo portavano fuori perché gli si faceva male sul serio». Dietro questa sua condotta c’era però una forte irrequietezza, come dimostrato sempre da un sua affermazione: «ci fu una partita in cui le cose non andavano bene e Vanz, il portiere, ad un certo punto doveva andare a prendere un pallone che era finito fuori, ma i tifosi lo contestavano. Così, andai io, e mi tirai giù i pantaloni davanti alla curva…».[3] Questa inquietudine di fondo potrebbe essere un sintomo dell’incapacità di metabolizzare gli orrori vissuti in guerra, in maniera analoga a Ettore, l’ex partigiano incapace di riadattarsi a una vita normale raccontato da Beppe Fenoglio ne La paga del sabato.
Ancora una volta queste storie sono quelle di chi, grazie alla propria fama, potrà sopravvivere nella memoria collettiva e a cui sono già state dedicati molti scritti, ma in chiusura vorrei fare una postilla e porre le mie parole al servizio di uno dei tantissimi anonimi che la nostra degenerata umanità ha creato e continua a creare ogni giorno.

Arturo Bacchi, compiuti vent’anni da poco, nel gennaio del 1943 marciava armato nel desolato e freddo territorio russo. Era giovane, giovanissimo, eppure il peso di una realtà più grande di lui e di un’ideologia imposta dall’alto lo costringevano a guardare ogni giorno la morte negli occhi. Mentre scrivo questo pezzo ho cinque anni in più di quanti ne avesse lui allora e mi sento pieno di vita, di desideri e speranze per il futuro e l’idea che il mio destino possa essere dietro l’angolo non mi tocca, ma non era così per Arturo, probabilmente consapevole che ogni respiro sarebbe potuto essere l’ultimo. Il 19 gennaio 1943 è stato dato per disperso in Russia, non si sa né quando, né dove sia morto, sappiamo solo che da quella data nessuno l’ha più visto. Il suo ricordo è rimasto vivo solo tra i fratelli e le sorelle, ben sette, e nei loro discendenti che ancora oggi possiedono una sua foto in divisa e, a volte, lo evocano nei racconti famigliari. Arturo è uno di quei tanti giovani anonimi spazzati via da una guerra, uno di quelli che nessuno ricorderà e che sono condannati all’oblio: non avrà mai statue o lapidi celebrative, non sarà mai sui libri di scuola o nelle narrazioni documentarie, eppure è parte integrante della storia.  È per lui e per quelli come lui che questo dittico sulla guerra [4] esiste e a lui e a quelli come lui è dedicato.

 

[1] http://www.1000cuorirossoblu.it/news/59-bologna/40442-amarcord-weisz-da-mito-a-deportato-strumentalizzazione-di-un-icona
[2] http://www.1000cuorirossoblu.it/news/59-bologna/40338-amarcord-pasolini-e-il-calcio-tra-bulgarelli-letteratura-e-critica-dei-costumi
[3] Citazioni tratte da Monari Simone, “Addio Ballacci, il terzino partigiano che fece disperare pure Boniperti”, La Repubblica, 6 agosto 2013
[4] http://www.1000cuorirossoblu.it/news/59-bologna/40650-amarcord-giovani-al-fronte-il-bologna-e-la-prima-guerra-mondiale

 

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