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Christmas Tale – L’intervista

L’intervista – Una racconto natalizio della rubrica “Christmas Tale”

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Christmas Tale: L'intervista
Christmas Tale: L'intervista

“Sono contento, non ho sentito la fatica”. Stupide, inutili parole. Del resto cosa avrei potuto dire, raccontare? Arriva questo ragazzo, avrà poco più di vent’anni, mi mette un microfono sotto il naso e mi chiede cosa ho provato. E se mi rendo conto di quel che mi è capitato. No, dico la verità. Io ancora non me ne rendo conto più di tanto. Non è facile, questo lo so. Non è facile per uno sconosciuto, uno che fino ad oggi un numero al petto non se l’era mai attaccato, proprio mai. Vincerla, la maratona, neanche a parlarne. Sarebbe stato impossibile. E’ una gara internazionale, così mi hanno spiegato. La fanno da anni, sempre intorno a Natale, in questo angolo a Sud per sentire meno gli agguati dell’inverno, e anche perché qui, dicono, si sente quell’atmosfera più tranquilla e dolce, si percepisce quel senso di attesa che affratella, come se davvero fossimo tutti una grande famiglia.

E’ una gara internazionale. Apposta hanno chiamato quei due africani che volavano via leggeri come uccelli, e io a impazzirci dietro su quelle strade strette di campagna. Però sono rimasto lì, incollato alla loro ombra, finché ho potuto. Fino a quando le gambe non sono diventate dure, pezzi di marmo. E’ iniziata la crisi, e allora mi hanno ripreso anche i due che stavano appostati un centinaio di metri dietro, cani da caccia arrabbiati e io lepre fiacca. Uno di loro, mi hanno detto, è stato anche cinque volte in Nazionale. Vai a sapere. Dev’essere dura arrivarci, in Nazionale.

Insomma, son tutti qui a spiegarmi che un quinto posto, oggi, per me è una vittoria. Qualcosa di fantastico. Sono tutti sorpresi, mi guardano come fossero allo zoo. E io, sì, un po’ mi sento in gabbia. Non ci sono troppo abituato. E il ragazzo – dice che lavora per Telenuova, Retenuova, un nome del genere – continua a chiedermi che cosa si prova. Fa tenerezza. C’è troppa gente qui intorno. Non vedo Eugenio, dov’è finito Eugenio?

Cosa si prova. Da dove vuoi che inizi, signor giornalista? Vorrei spiegartelo davvero, cosa si prova. Ma è troppo lunga, troppo squinternata questa storia. E io con le parole ci gioco poco, poco e male. Quello è il tuo campo.

Non mi ci sono mai abituato alle parole. Metterle in fila, costruirci una frase, costa fatica. E’ difficile. Io parlavo con i muri, ho parlato per troppo tempo con i muri. Frasi lente, quasi sempre senza senso. Discorsi che poi restavano dentro la testa.

Papà se ne è andato che avevo sei anni. Ha preso l’uscio e via, con quella donna che mi stringeva sempre le guance per salutarmi, e sapeva come farsi odiare. Via così, senza voltarsi indietro. Mia madre ha pianto quella sera e basta. Sottovoce. Da lì in poi si è dannata l’anima per giorni, mesi, anni, perché c’ero io e c’erano i miei fratelli, roba che cresceva senza farsi domande. Si è stracciata il cuore, a tirare il carro. E poi anche lei ha preso un’altra strada, ma senza correre dietro a nessuno. Ha solo piegato il fazzoletto perché è arrivata l’ora, troppo presto. E a portarla via eravamo rimasti noi tre, io Dario e Marino, i fratelli con molta fame addosso e poche domande da spendere. Il più piccolo ero io, l’unico che riusciva a piangere.

Io poi non li ho quasi più visti, Dario e Marino. Sono rimasto in città, la “tata” la mandava il Comune ma non aveva mica troppa voglia di ascoltare. E allora continuavo a parlare in mezzo alle crepe dei muri, e le parole uscivano lente.

Ci ho fatto amicizia, con quei muri. La “tata” forse la pagavano il giusto, magari poco davvero, non aveva voglia di approfondire. Aveva le sue ore da fare, tutto scritto sul contratto. Se stavo rinchiuso, poteva controllare meglio la situazione. Il mondo fuori, mi diceva, è un pericolo. Guai avventurarcisi. Così, oggi vorrei spiegartelo, ragazzo della televisione, signor giornalista. Vorrei metterli in fila per bene, i ricordi. Un letto, un comodino, giornali a fumetti, qualche soldatino sparso sul pavimento. Una guerra senza storia, senza eroismi. E colori, pochi. I muri gialli, la muffa negli angoli. L’odore di casa vecchia.

Non è che poi si stesse meglio, al collegio. Non è che si preoccupassero di più. Ma almeno c’era il cortile grande, c’era il paese appena fuori dal cancello. Non le strade di città, secche e dritte come colpi di fucile. Viottoli di campagna, che a camminarci ti imbiancavi di polvere. Veniva voglia di mangiarla, quella polvere bianca, di masticarla. Gli odori erano di aria, cielo, pioggia, alberi, erba verde. I rumori erano passi e ruote di carro.

E nessuno se ne accorgeva. Camminavo fino al cancello e lo attraversavo col cuore che picchiava forte nel collo. Poi via, di corsa. Minuti e minuti di corsa. Fino agli alberi in fondo, fino al bosco. Nel bosco era un altro mondo. Non c’erano più muri, per parlarci assieme. C’erano uccelli, loro cantavano e allora mi mettevo a cantare anch’io. Cantavo e correvo, e i minuti diventavano ore. Tutti i giorni. Sotto la pioggia, nella polvere dell’estate, con le gambe infilate nella neve d’inverno. Correre, correre, correre. Il petto bruciava e andavo avanti, perché ormai avevo amici nel bosco, come il torrente col ponte di ferro che traballava ad ogni passaggio, come il cane dell’Adele e la quercia scheggiata. Amici che mi aspettavano tutti i giorni, che si impensierivano a non vedermi arrivare.

Qualche volta ci sono rimasto anche di notte, nel bosco. Mai avuto paura. E al collegio nemmeno se ne accorgevano, altro che appello serale. Rientravo la mattina, spesso intirizzito e fradicio, con il profumo della galaverna nelle narici. Quella volta del febbrone, quando tutti pensavano che non me la sarei cavata, era andata proprio così. Una corsa senza fine, la notte nel bosco. Io, poi, non l’avevo detto a nessuno com’era stato che avevo rischiato di restarci secco.

Stessa passione, anche dopo. Ho imparato un mestiere, la quercia scheggiata mi ha insegnato che nel legno c’è la vita. Lavoro il legno e ci parlo, lui mi ascolta e prende forma tra le dita. Il collegio è ancora lì, ma i muri sono cadenti e le finestre hanno i vetri spaccati. Dentro non c’è più nessuno. Lo guardo da fuori, adesso. Non so se sono libero, in paese non è mica facile. Dicono che sono troppo solo, troppo strano. Che ho un’arte nelle mani, ma sono così strano. Tutti i giorni a correre senza un obiettivo, un senso. La pensano tutti così. Tutti meno Eugenio.

Lui ha un’altra testa, anche a lui il paese va stretto. Erano anni che mi vedeva uscire di corsa dal collegio, ma questo me l’ha detto dopo un bel po’ di tempo. Dopo che mi ero lasciato convincere a seguirlo in città, al campo d’atletica. Lì c’erano i corridori veri, ma non mi sembrava che li consumasse la stessa passione. Si divertivano, si impegnavano. Ma avevano occhi diversi. Eugenio cominciò a parlarmi di traguardi, di programmi, di risultati. Mi regalò un paio di scarpe che a correrci dentro sembrava di volare. Io volevo solo correre, ma lì era tutto diverso. Giravo in tondo, chiuso in quel catino sotto il cielo. Correvo, comunque, Eugenio sorrideva e guardava il cronometro. Riempiva fogli e fogli di appunti, giocava con i numeri. Moltiplicava, divideva, si divertiva come un bimbo.

Ecco cosa si prova, signor giornalista. Io non so cosa dirti di me, le mie storie non possono interessarti. Eugenio voleva che questa volta me lo mettessi, quel numero. Questa volta ero pronto, così diceva. Alla fine mi ha anche messo addosso una sensazione strana, una specie di disagio. Ma gli voglio bene e non gliel’ho detto. Avrei voluto partire di corsa e infilarmi nel bosco, passarci la notte come ai tempi del collegio. Rischiare il febbrone, magari. Invece ho preso un treno e sono venuto qui, a correre la maratona della grande città in festa, dove tutti stanno aspettando un altro Natale. Non ci ero mai venuto, tanta gente tutta insieme non l’avevo mai vista. E nessuno che mi conoscesse, e l’attesa che sembrava non finire mai, e la sensazione che tutti mi guardassero alla partenza. Poi, quando ho cominciato a correre, i pensieri difficili sono spariti. Come ogni volta. Sono rimaste le sensazioni buone, è arrivata la tranquillità. E’ sempre così, le gambe girano regolari e io mi sento sicuro, in pace col mondo. La strada passa sotto e diventa un filo impercettibile, invisibile. Sembra infinita, la strada. Ma a me l’idea di infinito non pesa. Corro su tutta questa vita, quella alle spalle e quella che attende, e se la strada si perde nel niente io la seguo, mi perdo con lei.

 Non ho segreti, io. Mi sono allenato, è vero. Eugenio mi ha insegnato parole strane. Variazioni, corsa veloce, ritmo medio. Per ogni parola, molti gesti. Mi ci sono messo d’impegno, e adesso ho anche un po’ di gente intorno e qualche amico vero. Ho imparato a mettere in fila qualche parola, qualcuna in più almeno. Quello che basta, mi sembra.

Mi sono allenato, ma non è soltanto questo. Il fatto è che dentro ho ancora la dannata voglia di scappare via dalle crepe nel muro, di uscire, di correre lontano da quell’odore di muffa. Ma questo, signor giornalista, come faccio a spiegartelo?

Così, oggi ho inseguito i due africani. Finché ho potuto, quelli sono professionisti. La gente mi applaudiva, mentre attraversavo i paesi abbandonati in mezzo alla campagna come cani randagi. Eugenio andava e veniva, saltava fuori e improvvisamente spariva sulla sua bicicletta. Stai attento, mi urlava. Corri sciolto, rilassato. Rallenta, non esagerare, così va bene. Va bene, lo vedi che va bene? La maratona è un filo di lana che si aggroviglia quando meno te l’aspetti, questo lui me l’ha sempre spiegato. I tecnici famosi, sulle macchine al seguito, ridevano tra loro. Sempre un po’ meno, col passare dei chilometri. Io stavo lì, coi due africani, facevo girare i pensieri. Correvo via da tutti i muri. Ogni tanto li guardavo, avevano facce da fuggitivi, come me. Anche loro, ho pensato, stanno scappando lontano da qualcosa.

Alla fine ho perso un po’ il ritmo, ma i pensieri li ho tenuti stretti nel pugno, come i frutti buoni del bosco. Non ne ho smarrito neppure uno. Il resto lo sai anche tu, signor giornalista di Retestrana, di Teleforse. Raccontala tu questa storia, che verrà sicuramente meglio. Mi chiesi cosa si prova, mi fai domande e vorrei avere una risposta per tutte. Adesso lo vedo bene, Eugenio. Sorride e guarda la mia faccia intontita dalla luce del faretto, sopra la telecamera. Mi sorride e alza il pollice: segno che è contento, che è andata bene. Se ho imparato a leggergli nel pensiero, mi sembra che quasi se l’aspettasse. Come se mi dicesse che questa è proprio una gran bella favola di Natale. Forse è così, perché almeno questa volta ho il cuore che batte forte dentro, e ride, come fosse davvero una festa. E’ la prima volta che mi succede, sarà questo il Natale di cui tutti mi hanno sempre parlato…

Vorrei dirne tante di cose, adesso che è arrivato il mio turno. E chissà per quale accidente di motivo riesco a dire solo queste stupide, inutili parole. Che sono contento, che non ho sentito la fatica.

 

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