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Carspillar – Ferrari 333 SP, figlia illegittima

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Auto Motor Fargio


Nata per passione

L’addio della Ferrari al Mondiale Sportprototipi a fine 1973 aveva provocato non solo la morte in culla della 312 PB/74, ma anche una ferita insanabile nel cuore degli appassionati. Il nuovo corso di Maranello aveva individuato nel ritorno alla vittoria in Formula 1 l’unico obiettivo da perseguire. Era appena arrivato un giovane direttore sportivo di nome Luca Cordero di Montezemolo che avrebbe centrato il bersaglio con un giovane austriaco di nome Niki Lauda. Vent’anni dopo la Ferrari si trovò in una situazione simile: un mondiale piloti che latitava e Montezemolo, nelle nuove vesti di presidente, che stava lavorando per raggiungere la vittoria nella massima formula. Eppure c’era chi sognava di riportare una Ferrari a vincere nelle grandi classiche endurance. Costui rispondeva al nome di Giampiero Moretti, “gentleman driver” nonchè titolare della Momo, ovvero colui che dal 1964 creava i volanti per la Scuderia. Con la sua passione convinse Piero Ferrari, figlio del “Drake” ed azionista di minoranza nell’azienda fondata dal padre, a produrre una vettura che riportasse il cavallino a gareggiare tra i prototipi. I due trovarono un importante sostegno anche in Gian Luigi Buitoni, presidente della Ferrari North America desideroso di rilanciare l’immagine della casa negli Stati Uniti attraverso le competizioni. Fu così che nacque la Ferrari 333 SP.

Solo per privati

Il programma, tollerato più che caldeggiato dai vertici aziendali, partì grazie ai contributi di consulenti esterni. Non fu infatti la Ferrari stessa ad occuparsi della progettazione e della realizzazione del telaio, bensì un’altra eccellenza della Motor Valley come la Dallara Automobili. Costruzione, sviluppo della vettura e definizione della carrozzeria furono invece a cura di un altro storico collaboratore della Ferrari, la Michelotto Automobili di Padova. A quest’ultima la casa avrebbe avrebbe successivamente affidato l’evoluzione della biposto come unica responsabile dell’intero progetto. La pianificazione prevedeva la produzione di 40 esemplari, tutti da vendere a scuderie private che si sarebbero occupate della gestione in pista senza alcun coinvolgimento diretto della casa madre.

Animale da pista

La 333 SP nasceva rispettando i regolamenti della classe WSC (World Sports Car) promossa come classe maggiore nelle gare IMSA, ente statunitense organizzatore delle gare di durata in nord America: il mercato a cui era destinata la nuova nata del Cavallino. Essa nasceva come una biposto di soli 860 chilogrammi complessivi a carrozzeria aperta (tipo “barchetta”) realizzata in fibra di carbonio ed interamente scomponibile, con forme sinuose definite in galleria del vento ed un voluminoso alettone posteriore. Il telaio portante, nato a Varano de’ Melegari avvalendosi anche della consulenza di un tecnico di lungo corso come Tony Southgate, era di tipo composito con struttura a nido d’ape in alluminio e fibra di carbonio. Altrettanto raffinate erano le sospensioni: indipendenti di tipo “push-rod” sulle quattro ruote con molle elicoidali coassiali agli ammortizzatori telescopici, schema a quadrilateri trasversali per l’anteriore e triangoli al retrotreno. La trazione era ovviamente posteriore ed il cambio sequenziale meccanico a cinque rapporti era curato dalla stessa Ferrari utilizzando componenti Hewland DGN. Il regolamento tecnico elaborato dall’IMSA aveva drasticamente ridotto i costi con l’eliminazione di effetto suolo, sospensioni attive e cambi automatici: la 333 SP nasceva quindi con una meccanica raffinata ma non “sporcata” da esasperazioni elettroniche. Tuttavia i legislatori nel perseguire l’obiettivo di rendere accessibile la loro serie anche ai privati intervennero con norme dedicate anche ai motori. Settore nel quale la Ferrari aveva costruito buona parte della sua fama.

Dalla Formula 1 alla strada

La barchetta di casa Ferrari nasceva intorno ad un “cuore” dalla più classica delle architetture Ferrari: un dodici cilindri a V di 65°. Il regolamento IMSA prevedeva che i propulsori della barchette derivassero da unità montate su modelli di serie, con un costo pari a circa 250.000 $. Una norma chiaramente pensata per favorire concorrenti privati che potessero equipaggiare le loro biposto con i più consueti V8 Oldsmobile o Chevrolet con distribuzione ad aste e bilancieri, tecnicamente lontanissimi dalla produzione europea. Per la 333 SP la scelta non poteva che cadere sul propulsore della F50, la supercar ancora in fase di progettazione che avrebbe ben presto sostituito la mitica F40. Tale unità derivava direttamente da quella realizzata per la F92A, la monoposto impiegata dalla Scuderia nel Mondiale F1 1992, aumentato a sei litri di cilindrata. Una volta scelto per equipaggiare la nuova barchetta, la cubatura venne nuovamente ridotta a 3997 cc con un alesaggio di 85 mm ed una corsa di 58,7 mm. Grazie alla distribuzione a doppio albero a camme in testa e le cinque valvole per cilindro, questo aspirato era capace di superare il regime di 12000 giri/min, sviluppando una potenza di 650 CV a 11000 giri/min ed una coppia massima pari a 441 Nm a 9000 giri/min. In pratica un altro mondo rispetto ai tradizionali “stock block” americani. Come da tradizione Ferrari anche la sigla identificativa della vettura derivò dal motore: 333,08 è infatti il valore in cc della cilindrata unitaria, mentre le lettere SP significavano semplicemente sport prototipo.

Vincente dopo la “gravidanza”

La 333 SP venne ultimata in nove mesi, gestazione quanto mai breve per una vettura da competizione. Vide la pista per la prima volta nel gennaio del 1994 avvalendosi dei servigi del reggiano Mauro Baldi, pilota entrato di diritto tra i grandi dell’endurance mondiale. La biposto di Maranello rinunciò alle due classiche di inizio stagione, le impegnative 24 ore di Daytona e 12 ore di Sebring, ma fece già tremare i rivali prima ancora di mettersi in moto alla presentazione presso l’Hotel Hilton di Daytona Beach. Il debutto venne programmato per aprile alla ben più tranquilla “sprint race” di Road Atlanta, là dove i timori degli avversari furono confermati. Mauro Baldi stampò subito la pole con la vettura della Euromotorsport di Antonio Ferrari, mentre Jay Cochran con la biposto gemella conquistò la vittoria. Da quel giorno la nuova Ferrari divenne semplicemente la vettura da battere, bella e possibile per la “modica” cifra di 640 milioni di lire del tempo. Fioccarono rapidamente gli ordini di pari passo ai successi firmati in pista dal Team Scandia e dalla Momo Corse con piloti quali Andy Evans, Fermin Velez, Eliseo Salazar e Max Papis. Tra essi va citato a parte Giampiero Moretti, che dopo avere promosso la nascita della vettura si tolse la soddisfazione di vincere a Daytona nel 1998 come compagno di equipaggio di Baldi, Theys e Luyendyk al volante della vettura nei colori della “sua” Doran-Moretti Racing. Un alloro destinato ad essere bissato dopo soltanto un mese e mezzo a Sebring. Altrettanto indimenticabili furono i successi colti in Europa con i quattro titoli consecutivi conquistati nel Fia Sportscar Championship dalla imprendibile 333 del team JMB Giesse condotta da Emmanuel Collard e Vincenzo Sospiri con un solo neo: la mancata vittoria assoluta alla 24 ore di Le Mans. Regolamenti non molto amici e poca convinzione della Ferrari stessa a procedere ad uno sviluppo specifico non consentirono di centrare il bersaglio grosso. Un palmarès di 69 pole position, 56 vittorie assolute ed 8 allori di classe rende comunque la 333 SP uno dei prototipi di maggior successo nella storia del cavallino rampante. Ma la grande vittoria di questa vettura è quella di avere riaperto grazie ad un sogno folle una storia leggendaria che sembrava chiusa per sempre: quella della Ferrari in endurance. In attesa di nuovi esaltanti capitoli.

Giampiero “Momo” Moretti corona il sogno di vincere la 24 ore di Daytona nel 1998 con la Ferrari 333 SP (rigonatmauro su YouTube)

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