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I racconti del Commissario – Un Toro da Formula 1 (1ª puntata)

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Automobili Lamborghini

Arrivano gli americani

Sant’Agata Bolognese, 1987. Il colosso americano Chrysler ha appena finalizzato l’acquisto della piccola Lamborghini dalla famiglia Mimran. Da Detroit la decisione di mettere un piede nella Motor Valley appare strategicamente importante: l’azienda emiliana gode di fama mondiale indiscussa tra le vetture supersportive, ma ha anche un bagaglio di conoscenze tecniche da fare invidia a qualunque casa d’oltreoceano. La nuova proprietà decide quindi di mantenere come presidente Emile Novaro in segno di continuità, ma allo stesso tempo inizia a pensare a qualcosa di totalmente nuovo per la Lamborghini: un impegno nelle corse. Salvo il ben presto naufragato impegno in ottica Parigi-Dakar, le gare per la casa del Toro erano sempre state un argomento tabù fino dai tempi del fondatore. Scendere in campo ufficialmente nelle competizioni è sinonimo di grandi investimenti giustificabili solo a fronte delle vittorie, ma il pragmatico Ferruccio sapeva che per la sua neonata azienda ancora povera di risorse ed esperienza l’insuccesso sarebbe stato potenzialmente letale. Dopo anni di incertezze l’arrivo di Chrysler cambiò completamente le prospettive e la dirigenza americana intuì da subito che il mondo delle corse poteva essere un terreno interessante per Lamborghini sia da un punto di vista di immagine che commerciale. Ma l’approccio fu decisamente inatteso ed interessante. 

Lamborghini Engineering: un’idea azzeccata

A Detroit si decise quindi di puntare alle gare senza gradini intermedi: si scelse di entrare in Formula 1. Ma non direttamente, bensì sfruttando un cambio regolamentare importante e creando una struttura esterna. Nel 1988 infatti gli ambienti tecnici della massima formula erano in grande fermento per la rivoluzione tecnica prevista l’anno successivo attraverso il bando dei motori turbo da 1,5 litri ed il passaggio agli aspirati da 3,5. La dirigenza Chrysler era presieduta da Lee Iacocca, grande manager già tra gli artefici dell’impegno agonistico della Ford a Le Mans. Quest’ultimo  capì ben presto che il momento era favorevole per scendere in pista non con una squadra ufficiale, bensì come fornitore di propulsori. Per realizzare l’obiettivo si scelse di creare un’antenna tecnologica esterna alla casa che potesse dedicarsi totalmente a ricerca, sviluppo e progettazione, offrendo al contempo la propria consulenza a clienti interessati. L’operazione era quindi una mossa commerciale intelligente ed avrebbe sfruttato l’immagine e le conoscenze tecniche di Lamborghini. Un’idea validissima, ancor più considerando i personaggi intorno ai quali il progetto venne creato. Parliamo di Daniele Audetto, ex direttore sportivo di Ferrari e Fiat scelto come amministratore delegato, e Mauro Forghieri, direttore tecnico appena uscito da Maranello dopo un’esperienza lunga un quarto di secolo. La nuova realtà prese il nome di Lamborghini Engineering con il già noto Emile Novaro alla presidenza e trovò sede a Modena, dove maestranze e fornitori non mancavano di certo. 

Nascita di un cuore a 12 cilindri

“Furia” Forghieri non perse tempo come da sua abitudine e con pochi fidati collaboratori fece rapidamente fruttare il suo lavoro. Nel 1988 venne infatti presentato l’LE3512, il primo motore marcato Lamborghini destinato alla Formula 1. Si trattava di un 12 cilindri, frazionamento ben noto a Forghieri dopo i tanti anni in Ferrari, ottimo anche per il marketing vista la coerenza con i propulsori utilizzati in produzione dalla casa del Toro. Con un peso limitato a circa 130 chilogrammi per 700 cavalli “galoppanti” a 14000 giri/min le prestazioni si rivelarono da subito interessanti rispetto alla concorrenza. L’assenza di un’innovazione tecnica importante come la distribuzione pneumatica da gestire attraverso una complessa elettronica non si rivelò troppo penalizzante per il motore sotto l’aspetto commerciale. Mancando queste costose soluzioni tecniche il propulsore venne offerto ad un prezzo molto valido per le numerose squadre private che popolavano il paddock di fine anni Ottanta. L’acquirente infatti arrivò subito: si trattava della francese Larrousse che a fine anno colse un solo punto. Il V12 Lamborghini necessitava di tempo e risorse per essere validamente messo a punto e rivelò guai di affidabilità, ma l’”equipe” dell’ex pilota transalpino rimase fedele alla casa di Sant’Agata anche per l’anno successivo con il prestigioso Team Lotus a farle compagnia. La costanza venne ripagata da uno splendido terzo posto colto da Aguri Suzuki nella penultima gara in Giappone che si rivelò essere un’iniezione di fiducia decisiva per la Lamborghini Engineering. Tanto che a “Forghieri & co.” il ruolo di semplice motorista iniziava a stare un po’ stretto e la consapevolezza di poter realizzare una monoposto completa si stava rafforzando di giorno in giorno.

Arriba Mexico!

Nel frattempo dall’altra parte dell’Atlantico si stavano risvegliando vecchie passioni. La F1 aveva fatto il suo ritorno in Messico da alcuni anni ed i fratelli Abed, proprietari dell’Autodromo della capitale e promotori del Gran Premio nazionale, stavano mettendo in piedi un programma per trovare un erede dei fratelli Rodriguez. Il pilota che secondo i piani avrebbe dovuto riportare il tricolore messicano sulle griglie del mondiale nel 1991 si chiamava Giovanni Aloi. Seppur di passaporto messicano, Aloi era figlio di genitori italiani e stava svolgendo la sua gavetta motoristica proprio nel nostro paese tra F2000 e F3 senza ottenere risultati particolarmente interessanti. Il suo nome però attirò in patria l’attenzione di un manager in grande ascesa in quegli anni: Fernando Gonzalez Luna. Quest’ultimo era un uomo d’affari che in quegli anni aveva costruito una notevole fortuna personale giocando abilmente in borsa e muovendosi soprattutto nell’ambito immobiliare. In quei mesi la sua attenzione stava iniziando a rivolgersi anche al mondo delle corse e fece rapidamente conoscenza con il pilota sul quale il Messico stava puntando. Contemporaneamente il padre di Aloi aveva contattato il suo vecchio conoscente Mauro Forghieri per un pranzo insieme. Fauro era stato collaudatore Abarth quando risiedeva ancora in Italia ed aveva intenzione di presentare al mitico “Furia” il figlio Giovanni accompagnato dal suo nuovo amico Gonzalez Luna. Nel pranzo a quattro, tra varie specialità enogastronomiche emiliane e racconti di corse, la conversazione arrivò anche al progetto di una monoposto tutta “made in Lamborghini” che Forghieri aveva già in cantiere ma per la quale mancavano i fondi. Nessun problema: a proporsi come finanziatore fu proprio Gonzalez Luna, al quale le risorse economiche per finanziare il progetto non mancavano di certo.

Una Formula 1 “Made in Motor Valley”

Dalle parti di Detroit l’idea di portare in pista il marchio Lamborghini con una vettura realizzata internamente ed una squadra ufficiale non era nemmeno stata considerata, ma con un progetto valido e ben “coperto” economicamente l’operazione era vista di buon occhio. Fu così che in occasione del Gran Premio di Monaco del 1990 Gonzalez Luna, che aveva trovato altri soci minoritari in patria, ed il presidente della Chrysler Iacocca raggiunsero un accordo per l’operazione che avrebbe fatto nascere la GLAS F1, prima squadra di licenza messicana a partecipare al mondiale l’anno successivo. Per il bugdet iniziale si parlava di un investimento da ben 20 milioni di dollari, cifra che avrebbe assicurato alla squadra di lavorare poggiando su solide basi. Le monoposto sarebbero state realizzate a Modena dal gruppo di lavoro della Lamborghini Engineering ed uno dei due piloti designati sarebbe stato il già citato Aloi, pedina fondamentale della vicenda. La Gonzalez Luna ASociados (da cui l’acronimo della squadra) aveva già programmato una presentazione in grande stile all’Autodromo Hermanos Rodriguez in occasione del Gran Premio del Messico. La nuova monoposto sarebbe scesa in pista per un’esibizione guidata da Aloi in una festa tutta messicana che avrebbe scaldato ancora di più il già “caliente” pubblico locale. Tutto andava secondo i piani e la nuova vettura aveva iniziato a girare in pista per i collaudi iniziali a Imola con l’esperto pilota reggiano Mauro Baldi al volante (a seguire un servizio sui test all’Enzo e Dino Ferrari).

 

 

Un giallo latino-americano

Qualcosa però iniziò ad andare storto. A Città del Messico la nuova vettura non arrivò mai così come il suo ricco finanziatore, lasciando Aloi con l’amarezza di non aver potuto portare in pista per primo davanti al suo pubblico l’attesa monoposto nazionale. Dalla Lamborghini non avevano lasciato partire la macchina in mancanza di sufficienti garanzie economiche da parte dei finanziatori. Nelle settimane successive i collaudi proseguirono impegnando Nicola Larini, il bolognese Marco Apicella ed il belga Van de Poele non solo a Imola ma anche a Misano. Il crash test programmato con la FIA venne superato senza problemi dalla scocca progettata in Lamborghini Engineering ed i pagamenti previsti furono poi tutti regolarmente saldati come ricordò più volte Forghieri. Ma di lì a poco sarebbe giunto il colpo di scena. Nel dicembre del 1990 le elezioni presidenziali in Messico fecero prendere una piega inattesa ai programmi di Gonzalez Luna che improvvisamente perse appoggi politici estremamente importanti. La sua fortuna finanziaria era reale, ma basata su un delicato e complesso sistema di garanzie che crollò come un castello di carte al primo soffio.  L’abile uomo d’affari centroamericano scelse una soluzione drastica: sparì in poche ore facendo perdere completamente le sue tracce. Da quel giorno di lui non si sarebbe mai più saputo nulla. Si dice che non abbia mai più messo piede nel paese natale e si sia rifatto una vita all’estero, lontano da finanza, politica e creditori. Ma qui la storia lascia spazio alle leggende latino americane. 

Dal Toro al torero

La sparizione di Gonzalez Luna fu un vero fulmine a ciel sereno per la Lamborghini Engineering. Un previsto test in galleria del vento venne annullato la sera prima della partenza di Forghieri ed il bilico della squadra con la monoposto al suo interno venne richiamato a Modena quando aveva già preso la via del Paul Ricard per nuove prove. Dei finanziatori messicani non restava che il ricordo, i loro dollari erano arrivati ma non sarebbero più stati sufficienti per scendere in pista. In casa Chrysler di finanziare l’impegno agonistico non se ne parlava nemmeno: se non si fossero trovati nuovi finanziatori l’avventura della Lamborghini come costruttore “totale” sarebbe finita ancor prima di iniziare. Anche Giovanni Aloi, che aveva accarezzato il sogno della Formula 1 per mesi, era rimasto con un palmo di naso. Sarebbe rientrato nel suo paese correndo ancora per alcuni anni nel locale campionato di Formula 3 per passare poi ai tori in carne ed ossa diventando un torero professionista. Intanto il Toro di Sant’Agata appariva ferito ma vivo ed il suo impegno nel campionato del mondo poteva avere un futuro. Ma questo ve lo racconteremo nella seconda puntata…

 

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