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Le Storie di Almanacco: Giorgio Bresciani – 30 mar

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Un boato come quello in vita mia non l’ho mai più sentito. Sì, certo, a parte quello terrificante della notte del 20 maggio 2012. Quando il cuore dell’Emilia ha tremato e ruggito e da quel momento, anche io come tutti, ho iniziato a fare i conti con la paura, quella vera, quella che arriva all’improvviso e da cui non puoi scappare.

No, non sto parlando nemmeno di una bomba o di attentato terroristico, ma di un vigoroso fragore che ha trovato cittadinanza dentro uno stadio.

Non in uno qualsiasi. Ma in quello di Bologna, il tempio indiscusso del calcio petroniano.

Sono passati proprio vent’anni dal momento del Grande Boato, del Big One rossoblu, che vado ora a ricordare con l’immenso piacere poi di raccontarlo.

E’ domenica 2 giugno 1996.  E’ la penultima giornata del campionato cadetto.

Nel torrido catino di mattoni e cemento del Dall’Ara, i rossoblu si apprestano ad affrontare il Chievo Verona dell’emergente Malesani. Ai rossoblu guidati da Renzaccio Ulivieri basta racimolarne una vittoria per avere la certezza matematica della promozione in A, dopo cinque anni trascorsi tra il purgatorio della B e l’inferno della C, con in mezzo un vergognoso fallimento e la possibilità mica poi tanto remota di sparire dal calcio professionistico per un bel pezzo.

Il torneo dei bar “inventato” dal tecnico toscano dallo sguardo luciferino al fine di stimolare i suoi giocatori entra nel suo momento clou, dopo quattro affermazioni consecutive.

Vincere vuol dire festeggiare. Perdere o pareggiare, significa rinviare la festa.

Non si può. Non si può davanti ad un pubblico così numeroso e “carico”. Stadio sold out praticamente in ogni ordine di posto. A quei tempi le pay tv non l’avevano ancora fatta franca nel catturare spettatori relegandoli poi sul divano di casa.    

L’attesa si fa febbrile. Sul maxischermo posizionato sopra la curva San Luca si intravvedono le immagini degli ultimi giri di pista e dunque della prima vittoria di Michael Schumacher al volante di una Ferrari al Gran Premio di Spagna.

Ma è l’afa il vero protagonista del pre-gara. Essere centrati in pieno dal getto d’acqua proveniente dall’idrante dei magnanimi vigili del fuoco posizionati lungo la pista d’atletica, diventa ben presto il desiderio proibito del pomeriggio.

Il match contro la formazione veronese è di una noia mortale, non ci si addormenta solo perché fa troppo caldo sulle gradinate.

A parte la clamorosa opportunità sbagliata da Olivares nella ripresa, le emozioni latitano fino al novantatreesimo, il minuto in cui il dio del calcio per qualche manciata di secondi decide di infilarsi addosso la maglia del Bologna.

Il tempo di recupero è ormai scaduto. L’arbitro ha già il fischietto sulle labbra pronto a decretare la fine dell’incontro e mandare tutti a ritemprarsi sotto le docce. Molti spettatori sono già sulle ferrose scalinate gialle con le chiavi dell’auto chiuse nel pugno, rammaricati per l’occasione persa e il pensiero del lunedì lavorativo incombente, quando il destino regala a Giorgio Bresciani il pass – dello stesso aspetto di quello ricevuto alcuni anni prima del mai dimenticato Giuliano Fiorini, autore di una rete strappalacrime al Vicenza a pochi minuti dal termine in grado di tenere vive la speranze di salvezza di una Lazio ormai destinata alla C – per entrare per sempre nella storia rossoblu.

L’ex granata, che sin qui ha disputato un campionato piuttosto modesto (per lui solo tre reti e tante domeniche trascorse in tuta a scaldare la panchina), su un chirurgico cross di Doni dalla destra, anticipa tutti con uncabezazo rabbioso che si infila sotto la traversa.

Al gonfiarsi della rete erompe un boato potentissimo, un immenso orgasmo collettivo a secco che si alimenta in curva in un’orgia di abbracci e urla fino alle lacrime. L’esplosione di giubilo e il delirio di trombe nautiche trasformano in pochi secondi il Dall’Ara in un’enorme polveriera.

Io sono in curva con i miei amici di sempre, ma credo che in quei frangenti radiosi il mio volto abbia assunto un’espressione mista tra il protagonista dell’Urlo di Munch e la faccia di Galliani versione Perugia-Milan maggio 1999 ante litteram.   

Nell’ammucchiata festosa fra i giocatori dopo il gol, partecipa persino il composto e morigerato d.s. Oriali, in maniche di camicia ed ebbro di gioia.

Anche la tribuna, al gol del centravanti di Lucca, esulta. Nel fiume di braccia protese al cielo, si intravedono i volti felici di tanti tifosi vip, alcuni sempre presenti anche nei momenti più bui e difficili, altri pronti a salire da bravi italiani sul carro del vincitore, magari con qualche vessillo rossoblu addosso, che in occasioni come queste non può mancare. Tanto per citare qualche nome, esultano insieme i nemici-amici Fini e Casini, l’eterno ragazzo Gianni Morandi, il suo presunto erede canoro Paolo Mengoli, il rubicondo indimenticato fuoriclasse tedesco Helmut Haller, il geniale Lucio Dalla, dotato di una folta chioma di capelli castano-chiari di dubbia provenienza. C’è anche il presentatore televisivo, romano di nascita, ma tifoso sin da bambino dei sacri colori, Fabrizio Frizzi. Tutti all’unisono salutano con gioia la fine dell’incubo.

Quel colpo di testa sa di liberazione da un lungo incantesimo, insomma, come in certe favole in cui un ranocchio si trasforma in un principe dopo un bacio.  

Il giornalista Luca Goldoni dovrebbe mettersi subito all’opera per rivisitare il suo famoso articolo “L’urlo della città” scritto in occasione dell’ultimo scudetto felsineo, magari raccontando, ovviamente con le dovute proporzioni, che il gol di Bresciani sta alla doppietta firmata Fogli-Nielsen. Reti simbolo di una generazione, la mia, quella destinata a mandar giù dei gran magoni più che assaporare gioie, e quella dei nostri genitori o nonni, che almeno hanno avuto la fortuna di veder alzare qualche trofeo e il simbolo tricolore cucito sul petto.

Un fragore di quella portata io non l’ho mai più sentito. In quasi trent’anni di militanza e di fedeltà più che nuziale verso i colori rosso e blu un rumore così assordante, un’esplosione di gioia collettiva e tellurica non l’ho mai più catalogata.

E ancora oggi, quando rivedo quelle immagini, mi vengono i brividi, la pelle d’oca e i goccioloni agli occhi. Ogni volta in ordine differente. Non oso pensare cosa sarebbe successo se Bresciani avesse segnato nella porta sotto l’Andrea Costa anziché sotto la San Luca.

Ripercorrere quei momenti insieme all’hombre del partido a distanza di vent’anni, per un tifoso come me resta qualcosa di magico. “Non dimenticherò mai quel giorno. Sono orgoglioso di aver indossato la maglia del Bologna e di aver contribuito in modo determinante alla promozione matematica. Ma il merito andava in primo luogo alla squadra, un bel gruppo, senza alcun dubbio ben attrezzato guidato da un tecnico che sa il fatto suo. Per me è stata un’annata travagliata. L’arrivo di Cornacchini e problemi personali con Ulivieri mi hanno precluso una maglia da titolare già durante il girone d’andata. Io mi sono sempre allenato con impegno e ho cercato di farmi trovare pronto quando venivo chiamato in causa. Nel modulo tattico del mister il centravanti aveva compiti di manovra, di regia offensiva e non di finalizzazione. Le punte vere alla fine erano Morello e Nervo, con i loro continui tagli a convergere. Due giocatori con caratteristiche simili come il sottoscritto e Cornacchini non potevano non soffrire questa tipologia di schema. Dati alla mano, entrambi sotto il profilo realizzativo ne abbiamo risentito. Per fortuna lo spirito cooperativo e la qualità  tecnica della squadra hanno avuto la meglio”.

Giorgio racconta così l’emozione del gol decisivo. “Entro a venticinque minuti dalla fine con la speranza di riuscire a segnare di persona o a far segnare un compagno. Per me viene prima di tutto la squadra. La palla non vuole entrare e con il passare del tempo le speranze si assottigliano. Fra l’altro il caldo non è un buon alleato. Poi a pochi secondi dalla fine, Doni mette in mezzo e io sono bravo ad anticipare il centrale, colpendo di testa verso in porta. Quando ho visto la rete gonfiarsi non ci ho capito più nulla. Ho sentito come un’esplosione, dentro e fuori di me, una detonazione da urla e da adrenalina. Difficile da descrivere, forse non ci sono le parole giuste. Poi la marea dei compagni travolgermi. Tutti sopra di me. Ti dico la verità, per alcuni secondi mi è stato persino difficile respirare. La paura di soffocare per un momento ha superato la gioia. Al fischio finale non ho fatto in tempo ad esultare che i primi tifosi entrati sul terreno di gioco mi depredano di tutto in baleno. A momenti mi cavano persino le mutande. Ma che emozione. Pensa che ho cominciato a realizzare il tutto solo il giorno dopo, davvero. Ed è stato ancora più bello.”

Bresciani a Bologna ha scelto poi di metterci radici, anche dopo aver appeso le scarpe al fatidico chiodo. “Avevo maturato questo decisione mentre ero professionista. Ho ritenuto questa città il luogo ideale per far crescere i miei figli e possibilmente, anche i nipoti. La mia esperienza in maglia rossoblu non è stata indubbiamente caratterizzata da valanghe di reti, anzi a dir la verità è proprio il contrario, ma il gol segnato al Chievo mi ha permesso di entrare nel cuore dei tifosi. Che ringrazio perché anche nei momenti più difficili, il loro apporto non è mai mancato. Pensa che dopo qualche anno che abitavo qua la domenica ho addirittura frequentato la curva insieme ad un gruppo di amici. E ancora oggi girando per le vie del centro c’è chi mi riconosce e mi saluta, oppure ferma per una foto, un autografo e addirittura per un selfie. Roba da matti. In fin dei conti io ho fatto solo il mio dovere. Ma è stupendo essere ricordato e ricevere queste attestazioni d’affetto anche a distanza di vent’anni

Giorgio Bresciani, nel suo dopo calcio giocato, si è lanciato in molteplici attività. Prima nel settore immobiliare, poi ha ricoperto vari incarichi dirigenziali in squadre di Lega Pro e serie minori, fino a diventare opinionista fisso al “Pallone nel Sette” su E’Tv. Ancora oggi non rinuncia ad accrescere le sue esperienze professionali anche nel ramo della ristorazione, in quanto ha intrapreso la gestione della storica “Osteria del Mercato”, nel pieno centro storico di Faenza.

Con le mani in mano mica riesce a stare.

Lui, l’esempio vivente di come un gol può valere una carriera e soprattutto, riconoscenza eterna.

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