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Le storie di Almanacco: Pietro “Pedro” Mariani – 2 mar

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L’utilizzo in dosi massicce di grinta, gambe, cuore e polmoni rendono facilmente catalogabile a stretto giro di posta un calciatore. Ed è proprio la miscelazione di questi ingredienti a dar vita a guerrieri come Pietro Mariani, “Pedro” per tutti da sempre e per sempre, lottatore indomito da manto erboso. Classe 1962, originario di Rieti, per oltre un ventennio impegnato a correre e rincorrere per tutto lo Stivale, dagli esordi come enfant prodige del vivaio del Torino dell’ultimo Radice glorioso agli ultimi spiccioli di carriera spesi nella città natale, da figliol prodigo ma poi non più di tanto. In mezzo una decina di squadre, di tutte le categorie professionistiche, tra cui il Bologna, proprio nel mezzo del cammin del suo percorso sportivo. Sull’esperienza nella città di Balanzone si concentrano dunque i nostri discorsi.

Ma facciamo un piccolo passo indietro, giusto per ricreare l’ambientazione.

Luglio 1990. Sono trascorsi pochi giorni da quando Lothar Matthaus ha sollevato al cielo la Coppa del Mondo appena conquistata dalla sua Nazionale e a Milanofiori il calciomercato entra nel vivo. La dirigenza rossoblu sta cercando di allestire una squadra competitiva in vista del campionato a un mese e mezzo dal via e dell’atteso impegno europeo in Coppa Uefa.

Via Gigione Maifredi, promesso sposo in casa Juventus, tocca al Professor Scoglio prendere in mano le redini del gruppo. Tra i primi acquisti che si registrano c’è quello del ventottenne Mariani, reduce da ottime annate in serie cadetta nel Brescia come jolly difensivo, capace dunque di ricoprire più ruoli, da terzino fluidificante a centrale, o addirittura libero. Una metamorfosi insolita per uno che inizia la carriera come attaccante. “Un giocatore deve essere in grado all’occorrenza di ricoprire più ruoli e in tal senso ho raccolto il suggerimento del diesse Riccardo Sogliano, incuriosito della mia potenziale duttilità in campo”. Così quando giunge la chiamata del Bologna, non c’è esitazione alcuna, nonostante le sirene milanesi, sponda Inter ma anche Milan, alla ricerca di rincalzi di valore. Ritrovare la A del resto ha sempre un certo fascino, soprattutto se la prospettiva di un posto da titolare non è un miraggio. “L’impatto con la città è stato senza dubbio positivo, nutro ottimi ricordi di quel periodo. Ho fin da subito allacciato un forte legame con l’ambiente e le persone, forse anche perché abitavo in una zona non molto lontana dal centro, che tra l’altro spesso raggiungevo a piedi. Ma è una peculiarità del mio carattere legare con la realtà in cui lavoro. Poiché mi piaceva il basket ed ero amico di Brunamonti, in un battibaleno sono diventato tifoso Virtus. Ricordo bene anche certe serate in compagnia di personaggi come Mingardi o Dalla. Bologna resta sempre una città che ha tanto da offrire a chi ci soggiorna”. Tuttavia il felice impatto con il contesto petroniano non va di pari passo con i risultati della squadra in campionato e le uniche soddisfazioni giungono dalla kermesse europea. “Ai nastri di partenza, il talento puro dell’ungherese Detari era la ciliegina sulla torta di un buon gruppo, in squadra c’erano giovani interessanti come Verga e Notaristefano oltre a giocatori con esperienza da vendere come Cabrini, Tricella, Villa, Poli e Bonini. Poi troppi infortuni e anche tanta sfortuna ci hanno condizionato parecchio. Credo che a rotazione più o meno tutti abbiano soggiornato per tempo indefinito dalle parti dell’infermeria, compreso il sottoscritto. A Scoglio imputo la colpa di non aver familiarizzato con l’ambiente, aveva un carattere troppo chiuso, di sicuro era un allenatore con delle idee interessanti ma i rapporti umani con noi giocatori erano praticamente azzerati. Rivolgeva la parola solo a quelli che riteneva più esperti e del resto i risultati non sono arrivati non solo per le sue scelte tattiche. Io posso però dire che con lui mi sono trovato bene, credeva nella mia qualità e mi aveva collocato in fascia come terzino di spinta. Con l’arrivo di Radice al posto del Professore, la mia posizione in campo varia di alcune decine di metri. Visto che il mister conosceva bene le mie attitudini in fase offensiva – con lui ho esordito in serie A come attaccante subentrando per un certo Pulici – decide subito di mettermi all’ala destra libero di scorazzare in avanti e di piazzare al mio posto Biondo con maggiori compiti di marcatura. Diciamo che la sua scelta ha subito ripagato. Non a caso ho segnato prima la rete della qualificazione in Coppa agli scozzesi degli Hearts e poi in campionato in casa contro il Bari. Di Radice non posso che avere ricordi e pensieri positivi nei suoi confronti. E’ stato per certi versi il mio antico maestro, era un tecnico severo con una passione straordinaria per il suo lavoro, precursore dell’utilizzo di importanti accorgimenti tattici come il pressing e il fuorigioco. Credo proprio che anche il “rivoluzionario” Sacchi qualcosa da lui abbia attinto. Entrava in sintonia con tutti con facilità estrema, non trascurava i più giovani e la battuta era sempre pronta, come un colpo in canna. Insomma, un duro dal cuore d’oro. Vorrei raccontare un aneddoto per delineare al meglio il personaggio. Prima di ogni gara, ancora negli spogliatoi ma già pronti ad uscire per raggiungere tutti insieme il tunnel che ci portava sul terreno di gioco, Radice aveva l’abitudine di dare una piccola testata a noi giocatori accertandosi che il gesto fosse dunque ricambiato, come una sorta di trasmissione di “carica” reciproca. Giochiamo in casa e lui sta distribuendo a tutti i titolari il suo propiziatorio e proverbiale colpetto. Quando tocca a me, contraccambio con una capocciata da paura, colpendo la sua testa come un pallone da scaraventare in rete. Un atto mica premeditato, anzi. Innocente ma capace di generare nel mister un dolore pazzesco, a tal punto che lo vedo barcollare e dopo pochi secondi, cadere a terra. Mamma mia…. Giusto il tempo di riprendersi, e di urlarmi – “Pedro, cazzo, oggi sei troppo carico!!! – In tutta la mia carriera, non ho mai visto un’intera squadra, a pochi minuti dall’inizio di una partita, piegata fino rotolarsi a terra dal ridere”.

Nonostante l’atmosfera serena che si respira dall’arrivo del tecnico brianzolo, la stagione si conclude per i rossoblu con una mesta retrocessione, per giunta all’ultimo posto. “Ripeto, i troppi infortuni dei cosiddetti “senatori” e di quelli con caratura superiore fermi d’obbligo ai box ci hanno tagliato le gambe, senza appello. Abbiamo disputato decine di gare, tra cui il ritorno del quarto di finale di Coppa Uefa, imbottiti di ragazzi della Primavera, tra cui il povero Campione, che andavano aiutati nei momenti di difficoltà da debuttanti quasi allo sbaraglio.. E tanta sfortuna. Mi vengono in mente alcuni episodi. Kuby Turkylmaz contro lo Sporting al Dall’Ara che se non si imbatte in una zolla maledetta fa il raddoppio. E il gol preso nei minuti finali. Come in altre occasioni. Come contro il Napoli in Coppa Italia, come contro la Juve a Torino dove eravamo in vantaggio, contro L’Inter a Milano. Forse troppa inesperienza palesata tutta insieme. Ma il gruppo era unito fino alla fine dei giochi, questo lo posso assicurare.” Il capitombolo in cadetteria costringe il contestatissimo patron Corioni a vendere la società e il Bologna torna quindi ai tanto invocati bolognesi. I nuovi padroni del vapore sono Gnudi e Gruppioni (quest’ultimo orbitante già da anni nei ranghi societari), con l’appoggio di un imprenditore cremonese d’origine fiamminga di nome Wanderlingh. Il matrimonio di questo insolito trio al comando finisce in fretta (il belga si defila appena sente puzza di bruciato sulle questioni meramente finanziarie), così come le speranze di promozione. Il ritorno di Maifredi in sella non porta infatti i frutti sperati, non serve nemmeno l’iniezione di belvaggine da parte di Nedo Sonetti. L’operazone rincorsa si spegne in una salvezza raggiunta per un punto. Delusione a livelli cosmici, anche perché alcuni giocatori sono stati acquistati quasi a peso d’oro e il rendimento non è stato certo all’altezza.

Questa la versione di Pedro, per l’occasione sul banco degli imputati ma non di certo nella lista dei colpevoli. “Facile parlare con il senno di poi e a distanzi di anni, ma la squadra per le sue componenti tecniche, seppur di indubbio valore, non era attrezzata per affrontare un campionato cadetto di vertice. Quello di B è da sempre un torneo selvaggio, tutto sofferenza, lacrime e sangue, con più sciabola e meno fioretto, insomma. Ci davano tutti per favoriti, ma non abbiamo considerato lo shock patito per la recente retrocessione. Per un professionista serio è un’onta mica da ridere. Probabilmente il gruppo andava smantellato e ricostruito in maniera più accorta, con giocatori giovani e di categoria. Magari inserendo qualche scommessa dalle serie minori. Anche la scelta di ripuntare su Maifredi non è stata felice, lui era piuttosto segnato nel morale dalla catastrofica esperienza juventina e non aveva certo l’entusiasmo dei suoi giorni migliori. E i risultati dunque non sono stati dalla sua. E dalla nostra. L’avvicendamento con Sonetti è stato senza dubbio salutare. Abbiamo fatto uno straordinario recupero in classifica nella parte centrale del campionato. Avevamo riacceso speranze di promozione ma lo sforzo compiuto per riagganciare il gruppetto di testa durante l’inverno ci ha tagliato le gambe in primavera. Anche per colpa dei soliti infortuni ma abbiamo terminato il campionato cotti come copertoni e sotto le attese iniziali. Devo riconoscere il buon lavoro svolto da Sonetti. Tutti lo ricordano come un tecnico grintoso e provinciale, ma è senza alcun dubbio un tecnico preparato e schietto, uno che ti dice sempre le cose in faccia e non alle spalle, che capisce di calcio e sa difendere le proprie idee. D’altro canto, non si vincono campionati se non si possiedono le giuste competenze. E lui ne ha vinti vari, se non erro.”

Arriva l’estate 1992, quella cantata da Jovanotti, quella dell’Europa unita delle mie delle tue vacanze, e il buon Pedro è costretto a far le valigie, destinazione Venezia. “Scelta ovviamente non mia, io sarei rimasto più che volentieri. Anzi, avevo appena rinnovato il contratto. Il mio mentore Sogliano, nuovo ds dei lagunari, mi vuole a tutti i costi con lui e si accorda rapidamente con la dirigenza rossoblu per una cifra importante. Ho provato a puntare i piedi ma nulla da fare. Lasciare Bologna per me è stato un piccolo trauma. Avevo addirittura pensato di piantare qui le radici appese le scarpe al famoso chiodo. Ovviamente, sempre con il solito senno di poi, mi è andata fatta bene, perché se fossi rimasto sarei di nuovo retrocesso con grande amarezza in C e poi fallito in modo squallido. Azzeccare la scelta della squadra in cui giocare può condizionare senza dubbio la carriera di un calciatore. Questa città resterà sempre una tappa importante del mio percorso professionale. Mi ha permesso di ritrovare il calcio ai massimi livelli. Mi dispiace che nel mio biennio rossoblu le soddisfazioni da regalare ai tifosi, sempre eccezionali anche nei momenti più difficili, siano state molto poche. Ma io ho la coscienza pulita perché ho sempre dato tutto quello che avevo e potevo dare.”

Mariani saluta dunque Bologna dopo settantadue presenze e quattro reti scosse fra campionato e Coppe – “nella mia carriera non ho segnato tanto, ma adoravo lanciarmi sotto la curva a festeggiare insieme ai tifosi” – lasciando un ricordo indelebile di giocatore dinamico, generoso e ancor di più “formato famiglia”, che piaceva sia ai maschietti di ogni età per il furore agonistico dispensato a quintali e a nonne, mamme e figlie per la prestanza fisica, la chioma ribelle e il sorriso incantatore mai negato a nessuna di loro. “Non mi vergogno certo di dire che destavo più di una semplice simpatia a numerose spettatrici. Sono circolate anche troppe voci su mie presunte attività poco ortodosse lontano dal terreno verde ma ti assicuro che se non conduci una vita sportiva con serietà non ce la fai ad essere sempre in testa nelle corse durante gli allenamenti e non arrivi a giocare fino a quarantuno anni come il sottoscritto”. Dopo l’esperienza in Laguna, infatti altre battaglie lo attendono in terza serie a Torre Annunziata tra le file del Savoia o nella Fidelis Andria, prima di diventare, dopo una fugace esperienza a Padova in B, una bandiera del Benevento, per concludere una più che dignitosa carriera a Rieti, a casa sua. Tante le maglie indossate e cambiate nel corso degli anni, ma con il ricordo tatuato nel cuore del padre prematuramente scomparso proprio quando era in rampa di lancio e pronto a tagliarsi finalmente il cordone ombelicale dalla casa madre granata.

Pochi i rimpianti e ancor meno i rimorsi. “Se potessi tornare indietro, ripeterei senza alcun dubbio tutta la mia carriera, magari con la speranza di imbattermi in infortuni di minore entità. Giocando a calcio mi sono praticamente rotto tutto. Ecco, con qualche disavventura in meno forse almeno una convocazione nella Nazionale maggiore sarei stato in grado di racimolarla. Leo Junior è stato senza dubbio il mio miglior compagno di squadra. In campo era in grado di svolgere qualsiasi mansione senza minima difficoltà, il mio essere versatile l’ho copiato un pochino da lui. Maradona senza ombra di dubbio l’avversario più ostico affrontato, l’imprevedibilità e il genio reincarnatisi di colpo in un calciatore, impossibile da annullare in toto perché era come se avesse gli occhi inseriti nella nuca e la bacchetta magica nascosta dentro i pantaloncini”.     

Chissà cosa farà ora Pedro “da grande”. “Appena ho smesso di giocare, mi sono subito attrezzato per trasferire tutta la mia esperienza dal campo alla panchina e metterla quindi in pratica. Sono tornato a Benevento, città di splendidi ricordi personali e con la quale ho mantenuto un legame speciale, per dare una mano alla prima squadra nel ruolo di vice allenatore/team manager e poi ho allenato la Giorgio Ferrini Benevento, una formazione militante nel campionato di Promozione campana. Un paio di anni più tardi, eccomi di nuovo a guidare gli Allievi giallorossi. Dal 2010 invece sono responsabile di una scuola calcio a Rieti con circa 200 ragazzi iscritti, ma mica relegato ad una scrivania, dal lunedì al venerdì sono sempre in tuta a dare una mano ai mister delle varie categorie, dai bambini dei Primi calci alla Juniores. Sai com’è, la passione è ancora forte…. Talvolta mi preoccupo di organizzare al meglio eventi sportivi nei dintorni. Il calcio è ancora il piatto principale della mia vita”. Bella persona, Pedro. Gentile e disponibile. La chioma ormai imbiancata e non più fluente come nei giorni di gloria non cancella il suo sorriso. Un personaggio piacevole da raccontare e che non poteva essere certo dimenticato e lasciato alla polvere su una mensola come un vecchio vinile di Cerrone.

(FOTO Ottopagine.it)

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