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Sinisa day – Manchi, mister!

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Fantamagazine.com

Fa parecchio freddo qui. Andrea ed io saltelliamo per scaldarci un po’, avvolti nelle nostre sciarpe. A bande rosse e blu la sua, a bande granata e bianche quella che avvolge il mio collo non solo oggi ma sempre quando arriva l’inverno. Stadio o non stadio. Giorni lavorativi o fine settimana. Sempre.

Non ricordo esattamente come ci siamo conosciuti, Andrea ed io. La rete, certo. Qualche amico comune, chissà. Le chiamano “conoscenze virtuali”, ma ad un certo punto ti rendi conto che, con certe persone trovate in rete, hai più cose in comune che con gente che vedi tutti i giorni e con cui ti scambi due parole di circostanza per accorgerti, dopo poco, di non avere più molto da dirti.

Con Andrea no. C’è sempre stato qualcosa da dire con lui fin dal momento in cui, come detto non ricordo quando, ci siamo conosciuti. Conosciuti, non incontrati. Perché il nostro vero incontro, quello in cui ci siamo guardati per la prima volta negli occhi, è avvenuto poco più di due ore fa alla stazione di Porta Susa dove ci eravamo dati appuntamento da tempo. Lui che arriva da Bologna, io che oggi arrivo dalla periferia Nord di Torino ma che ho come sempre sulle spalle e nelle gambe le due ore di viaggio che mi portano qui da Genova. Giusto il tempo di incontrarsi, osservarsi, annusarsi. Ed è subito scattato l’abbraccio fraterno, come due vecchi amici che non si vedevano da tanto. E poi parole, tante parole. Io che spiego, racconto la mia città, quella in cui da anni non vivo più. La mia città. I miei luoghi. Il mio Toro. Fino ad arrivare qui in quello stadio che ora si chiama Olimpico, o Grande Torino, ma che noi vecchi abbiamo sempre chiamato e chiamiamo tuttora Comunale. In quella curva che ora chiamano Primavera e che noi abbiamo sempre chiamato Filadelfia. Un tempo covo dei tifosi gobbi, ora ultimo baluardo di granatismo in uno stadio che ha perso molte delle caratteristiche che lo avevano reso uno dei più belli e colorati d’Europa.

 Tanta gente intorno a noi, nonostante il freddo. Le sciarpe simili alla mia. La voce dell’altoparlante che gracchia.

“E adesso annunciamo la formazione del….Tooooorooooooo!!!”

“Ooooolleeeeeeee” risponde la gente.

“Allenatore….”

Mi guardo attorno. L’aria spaesata. Vorrei, mi piacerebbe che lo speaker dicesse una cosa e invece..

“Walteeerrrr” czz di nome che è poi quello che mi mise mio padre per ricordare il grande scalatore d’antan “…Mazzarrrrriiii”.

“Oooooooooleeeeeeee!”.

Urlano e fanno girare le sciarpe. Mentre io continuo a guardarmi intorno con occhi spaesati. E il nulla che esce dal mio cuore e dalla mia gola.

E pensare che, fino a pochi giorni fa, a questo punto, ne usciva invece un urlo sovrumano.

Perché, fino a pochi giorni fa, al posto di quel Walter di cui ora si parla, c’era un altro Uomo, pure lui avvolto in una sciarpa molto simile a quella che ora indosso io.

Fino a pochi giorni fa lo speaker avrebbe scandito il suo nome:

“SI-NI-SA!”

E io sì che avrei urlato come un pazzo “MI-HAJ-LO-VIC!” con la stessa forza, la stessa convinzione con cui quasi quarant’anni fa, la prima volta che misi piede qui, scandii il mio primo “PU-LI-CI!”.

 E invece no. Niente più Sinisa. Niente più Mihajlovic. Niente di niente. Lo abbiamo visto in campo per l’ultima volta tre giorni fa in un derby di Coppa Italia perduto. L’ultima immagine che porteremo

con noi è quella di lui che protesta, faccia a faccia, con l’arbitro per una qualche ingiustizia subita.

Niente più Sinisa.

Niente di niente.

Niente più pressing alto sul 5 a 0 per noi.

Niente più assalti all’arma bianca per cercare di vincere le partite, perché noi “vogliamo sempre provare a vincere”.

Niente più “cambi azzardati” (per chi non ti aveva capito e mai ti capirà) per tentare di vincere un derby (alla fine perduto) che sembrava indirizzato verso il pareggio. Perché i derby non si giocano, ma si vincono, o almeno si tenta di farlo e un pareggio non è altro che una mezza sconfitta. Come quel pareggio in 10 contro 11 in casa loro alcuni mesi fa. Noi amareggiati per aver subito il gol del pareggio proprio alla fine, e tu incazzato nero perché desideravi vincerlo quel derby, più di ogni altra cosa. Quanto, se non più, di noi.

Niente più Sinisa.

Niente più dichiarazioni “roboanti” che parlavano di obiettivi finalmente ambiziosi dopo anni di discorsi in cui sembrava che il massimo traguardo per questo nostro club fosse quello di “allevare” giocatori per gli altri.

Niente più parole di sano buon senso all’indirizzo dei giocatori: “E’ dura fare il Capitano a 22 anni? No, è difficile svegliarsi tutti i giorni alle quattro, lavorare e non arrivare a fine mese. Lui (Benassi) è fortunato come tutti noi a fare questo lavoro”.

Niente più Sinisa.

Niente più parole di fuoco politicamente scorrette contro gli arbitri e contro il Potere che domina e soffoca il nostro calcio.

Da oggi niente più Sinisa. Quello che per alcuni tra quelli che adesso sono già lì, pronti ad urlare in favore di un altro e che non ti hanno mai saputo capire, era l’”Asino serbo” (ah la tattica…ah le troppe parole ruffiane…ah i cambi troppo offensivi…ah le frequentazioni equivoche).

Da oggi in poi ci sarà probabilmente un mostro di tattica in panchina, uno che azzeccherà tutte le mosse e tutti i cambi.

Ma senza Sinisa là, al suo posto, se n’è andato anche l’ultimo pezzo del mio Toro.

E allora, speaker, dilla pure la tua formazione.

Fai partire l’Inno.

Fai scendere in campo le squadre.

E vinciamola pure questa partita, magari anche per 3 a 0 (che poi, caro Andrea, se fosse finita 1 a 1 non ci sarebbe stato nulla da dire).

Esaltate pure il nuovo corso, con il Mister perfetto che ora tutti sembravate volere e che, in tre giorni, ha saputo trasformare la cacca in oro.

Esaltatevi pure tutti.

Ma io lo so. Continuerò a sentire la mancanza di Sinisa.

E ad amarlo.

Come non mai.

 

Due anni dopo. Febbraio 2020.

Quante cose sono cambiate da quel giorno, eh Andrea? Sinisa è passato da voi al Bologna e vi ha portato ad una salvezza che sembrava insperata e che è passata anche attraverso una vittoria al Grande Torino, quello che io continuo a chiamare Comunale. Quindi, in estate, la triste notizia della malattia che lui ha saputo affrontare con la consueta grinta ed il solito coraggio da “hombre vertical”. Con voi che lo avete saputo amare come, probabilmente, noi non abbiamo mai saputo fare fino in fondo, vittime di un’immagine distorta di Toro che ci è stata in qualche modo inculcata in questi anni. E che molti di noi si sono fatti piacere.

Ah come mi sarebbe piaciuto averti ancora qui. Ah come mi sarebbe piaciuto poterti amare da

vicino ancora un po’. Ah come mi sarebbe piaciuto starti vicino in questi tempi duri, caro Mister.

Non ce lo hanno permesso.

Forse eri troppo per noi, chissà. Molto meglio, per tanti, la tranquillizzante mediocrità di chi venne dopo di te. Del cui “valore” come allenatore e come uomo abbiamo avuto la prova di recente, perché i nodi vengono quasi sempre al pettine.

E oggi, in questa situazione per noi così drammatica, non solo e non tanto per i risultati sotto gli occhi di tutti quanto per altre cose apparentemente meno eclatanti ma assai più pesanti, sento il bisogno di dirlo a te e di urlarlo al mondo: MI MANCHI INFINITAMENTE, MISTER!

Sei stato forse l’ultimo baluardo del tremendismo granata che mi venne insegnato da piccolo da mio padre e dai suoi amici, mentre in campo andavano Capitan Ferrini e Pulici. E in panchina si sedevano Giagnoni e Radice prima, e il “Mondo” poi.

Sei stato il mio ultimo barlume di speranza di vedere qualcosa di granata in campo.

Sei stato l’ultimo spicchio di Toro nel mio cuore.

E la tua cacciata, non dovuta certo a ragioni di carattere tecnico, ma ad una visione diversa dal tuo capo di quello che il Toro è, e dovrebbe essere, è stata la recisione di tutte le speranze di rivedere quell’Idea di Toro.

 

Manchi, Mister.

Tanto.

Come tanto mi manca il Toro.

Quello vero. Quello tuo. Quello Nostro.

 

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