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Calcio

EuRoad. Episodio 2: Euro 1964

Il calcio sa essere terreno di contesa anche politica. Ad Euro ’64 succede questo. Spagna e URSS si battono in una sfida ideologica.

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È il 1964. A marzo il Presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, e il leader del Partito Comunista Sovietico, Nikita Chrushev, si accordano per il taglio alla produzione di materiale nucleare. Il 12 giugno Nelson Mandela viene condannato all’ergastolo. In cima alla hit parade della musica italiana c’è Gianni Morandi con “In ginocchio da te”. Gli italiani stanno vivendo un periodo incredibilmente prospero della propria storia. C’è lavoro, la guerra è lontana e la voglia di vivere è sedimentata nel modo comune di percepire la realtà. 

Ma c’è un altro paese in Europa che sta vivendo una fase di prosperità economica non indifferente. È la Spagna. Ed è proprio qui che il nostro viaggio fa la sua nuova fermata, dopo averci accompagnato a cavallo tra i secoli. Bentornati a Euro ‘64.

Euro ’64: si parte

La Spagna del 1964 vive una profonda dicotomia. Da una parte la dittatura franchista opprime ogni forma di dissenso e la censura è imperante rendendo, così, la libertà di pensiero solo un tenue miraggio; dall’altra, però, quelli sono gli anni del Desarollo, il miracolo spagnolo. Un periodo economico estremamente florido che consentirà alla Spagna di passare definitivamente il solco e di diventare un paese sviluppato. Ed è in questo momento storico che si gioca la seconda edizione dei campionati europei per nazioni. 

L’europeo, a quell’epoca, è completamente diverso da quello di oggi. Tanto per cominciare le squadre implicate nella fase finale sono solo quattro e il torneo si gioca in casa di una delle compagini arrivate fino a lì. Ma la strada per arrivare in Spagna è lunga e impervia. Ai nastri di partenza ci sono trentuno formazioni. Grande assente è la Germania Ovest che, per volere del tecnico Sepp Herberger, non partecipa a nessuno torneo internazionale che non siano i campionati del mondo. Dopo un turno preliminare viene ufficializzata la rosa delle sedici squadre che andranno a giocarsi la qualificazione: ottavi e quarti di finale in gara di andata e ritorno e poi sarà veramente europeo.

La favola del Lussemburgo

La grande sorpresa è una nazionale che non ha mai detto la sua nel calcio internazionale, anzi in tempi moderni viene sempre definita, senza mezzi termini, una squadra materasso: il Lussemburgo

Saltato il turno preliminare, per eccedenza di squadre partecipanti, i Leoni Rossi si trovano di fronte l’Olanda. Dopo una fugace apparizione nel ‘34 e nel ‘38 gli olandesi non centreranno più una qualificazione ai mondiali fino al 1974 e nella campagna europea del ‘64 sono allenati da Elek Schwarz. Il tecnico rumeno non riuscirà a risollevare gli animi fiamminghi della nazionale e l’anno successivo si trasferirà in Portogallo, alla guida del Benfica, dove vincerà il campionato e arriverà sino in finale di Coppa dei Campioni, perdendo contro la Grande Inter di Helenio Herrera. 

L’approdo ai quarti di finale

La gara d’andata si gioca allo Stadio Olimpico di Amsterdam e dopo cinque minuti il risultato sembra già scritto: gol di Nuninga e 1-0. Il Lussemburgo, però, incassa ma non si scompone e, anzi, prima della fine del primo tempo pareggia con May. Il risultato regge fino alla fine, anche a causa della scelta di formazione proposta dagli olandesi infarcita di riserve. La gara di ritorno, però, non si gioca in terra lussemburghese.

La federazione, infatti, considerando come eccessivamente scarse le possibilità di passaggio del turno, ha di fatto venduto agli olandesi la possibilità di giocare in casa anche la gara di ritorno.

Quindi, il 30 ottobre 1963, le due squadre entrano in campo al Feyenoord Stadium di Rotterdam. In un clima ovviamente sfavorevole il Lussemburgo scompagina i piani orange. Al 20’ Claude Dimmer porta in vantaggio i suoi. È importante tenere conto che, all’epoca, i giocatori del Lussemburgo sono sostanzialmente dei dilettanti e che la distanza tra le due compagini è veramente abissale. Ma Schwartz, contro ogni legge dello sport, sottovaluta l’impegno e concede un giorno di riposo a Nuninga, il marcatore dell’andata. Il giocatore dovrebbe prestare servizio militare e le norme consentono ai calciatori professionisti di disertare l’impegno, ma il tecnico rumeno non lo ritiene necessario. Sbagliando, evidentemente.

L’Olanda pareggia i conti al 35’ con Piet Kruiver, attaccante passato anche dalle nostre parti e soprannominato Pietà Kruiver dai tifosi della Lanerossi Vicenza per le sue non eccelse doti realizzative. La gara sembra indirizzata, ma i lussemburghesi resistono alla pressione e colpiscono in contropiede ancora con Dimmer. Incredibile, ma vero: i Leoni Rossi sono ai quarti di finale.

La Danimarca verso la semifinale

L’avventura del Lussemburgo si chiuderà al turno successivo al termine di un’entusiasmante tripla sfida con la Danimarca. Mattatore del confronto è indubbiamente Ole Madsen. Il piccolo centravanti metterà a segno una tripletta nella gara di andata, terminata 3-3, e una doppietta in quella di ritorno, terminata 2-2. La gara di spareggio, prevista dal regolamento dell’epoca, impone un’altra trasferta olandese ai Leoni Rossi che stavolta si arrendono ai danesi. Segna ancora Madsen e la Danimarca si guadagna un posto all’europeo. 

L’impresa danese non va, però, sottovalutata. La sua presenza al campionato europeo ha un valore inestimabile considerato che, e sarà così fino al 1971, la nazionale è composta solo da calciatori dilettanti. Non sorprende, quindi, l’immediata eliminazione della formazione scandinava in semifinale. Anche perché di fronte si troveranno una potenza del calcio di quegli anni: l’Unione Sovietica.

Italia – URSS

L’URSS si presenta come la squadra da battere. Campione in carica grazie alla vittoria nel 1960, la squadra guidata da Konstantin Beskov giunge senza particolari difficoltà. Lo scontro più ostico era stato quello degli ottavi di finale contro l’Italia di Edmondo Fabbri. L’andata, a Mosca, finisce 2-0. Gli Azzurri si sciolgono di fronte a una supremazia fisica eccessiva dei sovietici, sublimata dalla doppia superiorità numerica con cui giocano quasi tutta la partita a causa dell’espulsione di Pascutti, per fallo di reazione, e per l’infortunio occorso a Sormani. Al ritorno l’Italia ci prova, cerca l’impresa. Ma non andrà oltre l’1-1. 

Sull’1-0 per i russi, però, arriva l’episodio che potrebbe cambiare le sorti della partita e del nostro cammino: l’arbitro svizzero Mellet assegna un calcio di rigore a nostro favore. 

Sul dischetto si presenta un ragazzino che ha ventun’anni da appena quarantotto ore. Ha un cognome importante, ma come dimostra dalla volontà di presentarsi dagli undici metri, personalità ne ha eccome. È Sandrino Mazzola.

Ma per raccontarvi quel che succede poi, c’è bisogno di presentarlo questo calcio di rigore. Abbiamo visto chi lo batte, ma chi lo para?

Lev Yashin: il baluardo dell’URSS

Il nome è Lev. Il cognome è Yashin. A detta degli esperti, uno dei tre portieri più forti della storia, stando larghi. Proprio quell’anno, il 1963 in cui si giocano le qualificazioni, vincerà il primo e unico Pallone D’Oro assegnato a un portiere nella storia del premio. La sua grandezza è avvolta da un alone di misticismo, quasi come fosse una figura mitologica. Non avendo mai partecipato alla Coppa dei Campioni, le uniche immagini visibili all’epoca erano quelle con la maglia della nazionale e in rari casi di alcune rappresentazioni.

Ed è proprio in un caso come questo che Yashin si guadagna un posto nell’epica del mondo del pallone. Per celebrare il centenario della Football Association, nel 1963, partecipa ad una partita tra Inghilterra e Resto del Mondo. Bastano quarantacinque minuti alla giuria di France Football per accorgersi che quello straordinario numero 1 è meritevole del premio individuale più ambito. Un primo tempo senza logica in cui bloccherà qualsiasi tentativo inglese, esibendosi in una prova da consegnare all’Olimpo del ruolo.

Ma per capire veramente quale sia la straordinaria influenza che questo meraviglioso giocatore ha sui compagni, vanno recuperate le parole di Jonas Bauzha, vice di Yashin alla Dinamo Mosca, intervistato da Giovanni Battistuzzi nel novembre 2014: 

«Yashin è per tutti il Ragno Nero, soprannome azzeccato per la sua capacità di tessere tele insuperabili per gli attaccanti avversari, ma per noi, suoi compagni era altro. […] Era un anatema contro la sconfitta, un pezzo di legno in mezzo al mare al quale aggrapparsi se nella tempesta la barca scuffiava e ci si ritrovava in in balia delle onde.»

Sicuramente una descrizione poetica, per certi versi retorica, ma lascia intendere perfettamente quanto la supremazia di questo mitologico portiere avesse un che di esoterico, ben al di là delle mere doti tecniche. E questa sua aura di imbattibilità si materializza proprio nel rigore di Mazzola. Ma lasciamo che a raccontarci questa esperienza soprannaturale sia proprio il diretto interessato: 

«Yashin era un gigante nero: lo guardai cercando di capire dove si sarebbe tuffato e solo tempo dopo mi resi conto che doveva avermi ipnotizzato. Quando presi la rincorsa vidi che si buttava a destra: potevo tirare dall’altra parte, non ci riuscii. Quel giorno il mio tiro andò dove voleva Yashin.»

L’Italia pareggia, poi, con Gianni Rivera, ma è troppo tardi. Si chiude così anzitempo un’altra esperienza internazionale degli Azzurri di quegli anni. Tutt’altro che una nazionale da buttare, ma è come se il fantasma di Superga aleggiasse sul nostro tricolore calcistico per tutti gli anni Cinquanta e i primi Sessanta. Dovremmo aspettare l’edizione successiva, a casa nostra, per laurearci per la prima volta campioni d’Europa. 

Ma quell’Unione Sovietica è veramente una squadra sensazionale. Ai quarti di finale non fa nessuna fatica nel doppio confronto con la Svezia e si presenta da strafavorita alla semifinale con la Danimarca.

Dall’altro lato del tabellone a fare strada sono la Spagna, che si sbarazza facilmente di due britanniche: l’Irlanda del Nord agli ottavi di finale e l’Irlanda ai quarti; e l’Ungheria. 

Le quattro della fase finale: URSS, Spagna, Danimarca e Ungheria

Il tabellone finale, quindi, è ricchissimo di sottotesti emotivi e storici che non possono e non devono essere sottovalutati.

Nel 1956 lo stato ungherese appartiene ai paesi del Patto di Varsavia, ma è evidente che non tutti i membri interpretino il socialismo come Chruscev, leader di partito in Unione Sovietica. Sicuramente non Imre Nagy, leader di un’ala del Partito dei Lavoratori Ungheresi con un occhio rivolto a Occidente. Nagy propone l’ingresso nell’ONU e l’uscita ungherese dal Patto di Varsavia, con il sostegno di operai e studenti. La situazione è esplosiva e la miccia è troppo corta, infatti, il 2 novembre scoppia la rivolta e l’Armata Rossa reprime nel sangue. Moriranno in tremila, forse di più.

E quello stesso anno, un mese dopo, si scrive una delle pagine più atroci della storia dello sport. Lo scenario è del tutto neutrale, ma la partita non può esserlo. Siamo alle Olimpiadi di Melbourne, nella piscina Crystal Palace, e la partita in questione è valida per il Girone Finale del torneo di pallanuoto. L’Ungheria batterà l’Unione Sovietica 4-0, ma ben al di là del risultato sportivo che è l’aspetto meno importante, resta nella memoria collettiva il rosso del sangue nell’acqua. E non metaforicamente. Quello che si sono detti i giocatori quel giorno lo sanno solo loro, ma i colpi proibiti restano nell’immaginario di un momento che, come spesso accade, consacra lo sport a terreno di contesa, traducendo la politica in qualcosa di tangibile in cui la supremazia non passa dai proiettili e dalle urla per le strade.

La nazionale ungherese degli europei del 1964, però, non arriverà a giocarsi la rivincita contro i sovietici. In quell’edizione, i magiari sono guidati da Laros Baroti in panchina e sono ormai poveri di quel superlativo talento che aveva forgiato l’Aranycsapat degli anni Cinquanta nella leggenda. La squadra fonda il suo reparto offensivo sulle doti di Ferenc Bene: centravanti veloce e snello, ma soprattutto estremamente prolifico. Le statistiche ufficiali dicono 508 gol in carriera ma, come è immaginabile, alcuni di questi numeri sono coperti da una patina di polvere e mistero che non permette alcuna certezza. 

Al Santiago Bernabeu, però, ai magiari non basta il gol del solito Bene e la Spagna vince 2-1 con le reti di Pereda e Amancio ai tempi supplementari.

Dall’altra parte, a Barcellona, l’Unione Sovietica si sbarazza senza problemi dei dilettanti danesi e vince 3-0.

La finale, quindi, sarà Spagna – URSS. Ma ve lo ricordo, qualora ve lo foste dimenticati: siamo nel 1964. Quindi la partita non può essere come le altre. 

La finale: Spagna – URSS

Più di una partita di calcio

Al Santiago Bernabeu di Madrid ci sono più di centomila spettatori e, come in ogni grande evento sportivo che si rispetti, la cornice di pubblico è quanto più eterogenea possibile. Ci sono tantissimi bambini, ad esempio, che nella loro innocenza non comprendono la portata storico-politica dell’evento. La guerra civile, terminata con il trionfo dello schieramento di destra, porterà all’instaurazione della dittatura franchista. Allo stadio ci sono anche alcuni anziani che la ricordano bene, che guardano quei bambini con gli occhi pieni di gioia, immaginando che loro la libertà se la ricordano.

La guerra civile, combattuta tra il 1936 e il 1939 segnerà il primo conflitto puramente ideologico dell’età moderna: da una parte le truppe nazionaliste di Franco, dall’altra le forze popolari, con sostegno sovietico. Non è passato abbastanza tempo perché la ferita si sia rimarginata e la dittatura, che cerca di soffocare qualsiasi brandello di libertà, non fa che ricordarlo. E anche dal punto di vista calcistico la guerra è ancora troppo vicina. Quattro anni prima, infatti, il Caudillo, epiteto con cui si era soliti chiamare il generale Franco, aveva deciso di ritirare la squadra in vista del confronto proprio con los rusos, che poi vinceranno il titolo. Ma stavolta non si può, la vetrina internazionale ingolosisce la macchina propagandistica iberica e quindi la partita si gioca.

Lo scontro tra fascismo e comunismo, ancora una volta come trent’anni prima. Ma in questo caso non ci sono armi né sangue, solo un rettangolo verde e un pallone. 

Il pubblico, in una manifesta superiorità del potere del calcio al potere politico, applaude l’inno sovietico. Lo applaudono quei bambini per cui quella è solo una partita di calcio; lo applaudono quegli anziani che erano dall’una o dall’altra parte della barricata nella guerra tra fratelli; lo applaudono quegli adulti che hanno vissuto la guerra quasi senza consapevolezza e vogliono solo vedere uno spettacolo che, per una volta, provi a slegarsi dalla politica. 

Il trionfo spagnolo

Formazioni. La Spagna è allenata da Josè Villalonga, allenatore del Real Madrid campione d’Europa nelle prime due Coppe dei Campioni. Un personaggio controverso, leggendario e infatti, con grande opposizione dell’opinione pubblica, fa a meno dei cinque fenomeni del Real Madrid campione di tutto e schiera con un 3-2-5 di spiccate idee offensive. In porta c’è il basco Iribar che poi diventerà allenatore della rappresentativa dei Paesi Baschi; il trio difensivo è formato dai due mastini dell’Atletico Madrid, Rivilla e Calleja, e dal capitano Olivella. A centrocampo ci sono il blaugrana Fusté e il blanco Zoco. Attacco. Le ali sono Amacio e Lapetra. In posizione di mezzo destro Pereda e il centravanti è Marcelino.

E poi c’è lui. Il numero 10. Formalmente fa il mezzo sinistro, in pratica fa quello che vuole. Pallone d’Oro nel 1960 e perno della Grande Inter. Un giocatore sontuoso, capace di leggere il gioco come nessuno e innescare i compagni con lanci millimetrici. Ordisce trame come un tessitore, vede spazi che gli altri non vedono e mette la palla dove vuole come un architetto. È Luis Suarez.

L’Unione Sovietica di Beskov risponde con più coperto, si fa per dire, 4-2-4. In porta ovviamente il Ragno Nero. La linea difensiva è formata, da sinistra a destra, da Mudrik, Shesternyov, Shustikov e Anichkin. La coppia in mediana è formata da Korneyev e Voronin che vent’anni dopo morirà assassinato in circostanze non ancora chiarite. Reparto offensivo: a sinistra Chusainov, a destra Chislenko e davanti il duo formato da Ponedel’nik e dal capitano Ivanov.

Alle ore 18:30 del 21 giugno, l’inglese Holland fischia l’avvio. La partita si gioca in un clima torrido, in tutti i sensi. I sovietici, non reggono minimamente l’afa spagnola e appaiono tramortiti. Dopo appena sei minuti, la difesa ospite pasticcia: Chislenko, che non sa neanche lui perché è lì, tenta maldestramente di rinviare e sulla palla si avventa Pereda che bissa il gol della semifinale e fa 1-0. Non passano neanche centoventi secondi che siamo già dall’altra parte. La difesa spagnola scala male e Khusainov batte Iribar con un gran diagonale mancino. 1-1.

Il resto dell’incontro vede gli spagnoli mantenere il pallino del gioco e la squadra di Beskov perennemente in affanno. L’URSS prova a trascinare la partita ai supplementari, ma a sei dalla fine il Bernabeu esplode. Rivilla ne ha ancora per andare via sulla destra, il suo cross è perfetto e Marcelino, il più piccolo della falange d’attacco spagnola, va in torsione, colpisce di testa e devia in porta la palla più importante della storia di Spagna fino a quel momento. 

Sarebbe assurdo considerare questa vittoria come il trionfo del fascismo. Certo che i modelli politici contrapposti erano sotto gli occhi di tutti, ma non meglio celebrare questo successo come un risultato per la gente? Sì, i centomila che erano allo stadio, ma anche tutti coloro che non riuscivano a sorridere in quegli anni. Tutti coloro la cui voce veniva taciuta in nome di un potere superiore. La vittoria della Spagna all’europeo del 1964 è la vittoria della gente. La vittoria di chi, per un pomeriggio indimenticabile, ha sentito l’orgoglio di essere spagnolo

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