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Calcio

(Extra) Amarcord – Paolo Sollier: tra pallone, fabbrica e scrittura

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Dopo un articolo di alcune settimane fa sulla creazione dell’Associazione Italiana Calciatori sono stato contatto da un lettore che, con mio grande piacere, mi ha messo in comunicazione con Paolo Sollier, nominato all’interno del pezzo. Due giorni dopo ero a casa di Paolo per una lunga chiacchierata davanti a un caffè sulla sua vita, sulla sua carriera, sul calcio e sulla società in cui viviamo. Il suo salotto è stato una piccola folgorazione: la prima impressione avuta vedendolo è stata pienamente confermata. I libri, i dischi e i dvd in un disordine solo apparente hanno una vita loro e ti avvolgono quando entri, sono i segni di un grande viaggio culturale, della curiosità e della voglia di conoscere che poi ho ritrovato nelle sue parole. La mia scelta è stata quella di non trascrivere l’incontro come una classica intervista, ma di far emergere le parole che ci siamo detti in un racconto.

Paolo Sollier è stato uno di quei calciatori che non passeranno alla storia per le vittorie in campo o per il talento, ma per la loro personalità autentica e sempre fedele a sé, per l’aver reso la propria carriera un qualcosa di più profondo. Paolo, che come giocatore ha avuto il momento di massimo successo nel 1975-76 giocando in Serie A con il Perugia, oltre che sul campo è sempre stato impegnato nelle lotte sociali che caratterizzano la quotidianità e ha sempre mantenuto il legame con la sinistra operaia, senza paura di mostrare la sua fede politica. L’immagine più iconica della sua carriera lo ritrae con la maglia rossa del Perugia, il pugno alzato e la fronte leggermente corrucciata, segno della serietà e del peso che quel gesto aveva per lui. Dopo essersi formato in gruppi cattolici del dissenso come Mani Tese e Gruppo Emmaus, ha fatto parte di organizzazioni extraparlamentari di sinistra, in particolare Avanguardia Operaia, e nel corso della carriera la sua militanza gli ha creato alcuni dissapori, ma, tolte alcune richieste di silenzio da parte delle dirigenze, da lui disattese, non pensa che questi gli abbiano precluso traguardi. Con una grande onestà intellettuale mi ha detto che, pur essendoci stato del fastidio per le sue posizioni mai taciute, non avrebbe potuto ottenere di più perché il talento era poco: afferma di aver avuto dalla sua una grande corsa e una grande passione, ma mentre gli altri correvano a testa alta, lui doveva tenere gli occhi incollati sul pallone per poterlo portare avanti. Il 1975-76 è stato l’anno della Serie A, ma la cosa di cui mi ha detto di essere più orgoglioso è la strada fatta per arrivare lì: una salita costante lungo tutte le categorie allora esistenti nel calcio italiano. Una carriera con questo iter permette di cogliere tutte le sfumature di un mondo complesso in cui le dinamiche sportive e lavorative sono fortemente stratificate e variabili in base al livello in cui si gioca. Questo è un percorso insolito, raramente si trovano giocatori con questo tipo di cammino, e così Paolo ha visto cose che altri non hanno potuto vedere. Da amante delle passeggiate notturne, di quegli orari a cavallo tra l’oggi e il domani in cui è possibile cogliere dettagli e scorci di vita invisibili agli occhi dei più, non ho potuto non collegare la felicità per una carriera così variegata con uno dei racconti sulla fabbrica fattimi da Paolo: nei mesi in cui lavorò a Mirafiori amava i turni di notte. La notte e quel tipo di carriera regalano, a chi ha la voglia di coglierli, dei segreti che per un animo attento alla realtà circostante come Sollier sono preziosissimi. Quanto detto, però, non può esistere senza una profonda fame di conoscenza e a questo si lega l’esperienza alla Fiat, a suo dire molto importante perché solo così ha potuto capire cosa realmente fosse la vita operaia e comprenderne le dinamiche. La necessità di vivere qualcosa per poterne davvero parlare è emersa confrontandoci sull’attualità quando, con esercizio di umiltà, non ha mai dato giudizi trancianti consapevole che certe realtà per noi sono troppo distanti e, in parte, intellegibili.
Paolo Sollier non è solo un militante, ex operaio ed ex calciatore, ma anche uno scrittore. La passione per la scrittura mi ha raccontato essere innata in lui che da sempre riempie diari con pensieri e riflessioni. Nel 1976 ha pubblicato Calci e sputi e colpi di testa, libro in cui raccontando le sue esperienze ha messo in evidenza molte delle ombre del mondo del calcio, mostrando anche quello che, invece, è il suo ideale di sport e di vita. L’opera non fu accolta con piacere dal sistema che aveva apertamente criticato, ma ancora una volta ha continuato senza remore a rimanere fedele a sé. Dopo il ritiro ha collaborato come giornalista per numerose testate e nel 2008 ha pubblicato un altro libro, Spogliatoio. Se il mondo del calcio non è cambiato e in lui Sollier non è riuscito a trovare un luogo fecondo per quella visione più spontanea dello sport, quella che in un’intervista del 2013 identificò coi bambini che lo fecero allenare molti anni prima con loro ai Giardini Lussemburgo di Parigi, ci sono però due momenti, uno giovanile e uno più maturo, in cui Paolo ha contribuito alla creazione di realtà simili. Da ragazzo organizzò insieme a una decina di amici al campo di Chiomonte, suo paese natale, un torneo amatoriale e nel giro di poco tempo riuscì a ottenere una notorietà tale da attirare in agosto, quando si teneva l’evento, quasi tutte le squadre della Val di Susa. L’iniziativa era un momento di riunione e di condivisione basata sulla forte passione che univa tutti loro e rappresentava un calcio che riusciva a unire, nonostante alcuni prevedibili problemi, chi vi partecipava. La seconda realtà è, invece, l’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale scrittori italiana: a partire dal 2005 per alcuni anni Sollier è stato allenatore della rappresentativa in un’esperienza da lui descritta come molto bella e che permetteva di viaggiare per incontrare altre squadre facenti parte della Writers’ League.
La coerenza, la consapevolezza del peso dei propri gesti e il senso di responsabilità sono emersi anche in un racconto sul padre. Paolo fino al 1967 ha giocato nella Vanchiglia, la squadra del suo quartiere, e in tutto questo periodo, nonostante ne avesse avuta la possibilità, il padre ha fermamente rifiutato il ruolo di dirigente della società per non interferire, salvo accettarlo dopo il trasferimento del figlio e non lasciarlo più. Un gesto piccolo in cui, però, è presente un enorme insegnamento sul rispetto degli spazi, dei ruoli e della libertà altrui.
Paolo è stato e continua a essere un uomo pronto a lottare per i propri principi. Lottava a fine anni Sessanta, quando, come mi ha detto, si credeva davvero nella possibilità di un cambiamento, ha continuato a lottare nei decenni successivi quando questo avrebbe potuto creargli problemi per la sua carriera e lotta ora anche se, con dispiacere, dice di non vedere nei giovani quello spirito che ha caratterizzato la sua gioventù. Il mondo del calcio non l’ha seguito e non ha mai preso posizioni in maniera forte, le organizzazioni extraparlamentari in cui è cresciuto non sono mai riuscite a ottenere una vera rappresentanza e la situazione in cui viviamo oggi è fortemente instabile: di queste cose è pienamente consapevole. Eppure, negli occhi di Paolo, ora che ha settantacinque anni, è ancora possibile cogliere vivo e pieno l’idealismo, la speranza di un cambiamento e quel sorriso con una nota un po’ corrucciata di chi è conscio della serietà che certi pensieri e certe idee portano con sé.

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