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Calcio

I PROTAGONISTI DEL MONDIALE (4^ puntata): Brasile 1950

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Prosegue la “Storia breve dei Mondiali”: quest’oggi una delle edizioni più importanti e storiche, quella del 1950.

Le precedenti puntate:

– URUGUAY 1930
– ITALIA 1934
– FRANCIA 1938


#IL MONDIALE

Dopo la dovuta pausa bellica, che fa saltare le edizioni del 1942 e del 1946, il Mondiale torna nel 1950 e torna in Sudamerica: lo organizza il Brasile, che intende finalmente fare sua la Coppa anche in virtù di una squadra fortissima.
Delle sedici qualificate, in tre si ritirano: Scozia, Turchia e India, quest’ultima per protesta contro il regolamento che pretende che i calciatori indossino gli scarpini da calcio, regola inaccettabile per gli asiatici, abituati a giocare a piedi nudi.
Restano tredici squadre, il minor numero di partecipanti di sempre insieme all’edizione del 1930. Per la prima volta partecipa anche l’Inghilterra, ma l’isolamento in cui si è messa ne causa la prematura uscita a causa della troppa supponenza.


Gli organizzatori, per giocare più gare e quindi aumentare gli incassi, stabiliscono che la vittoria del torneo non arriverà tramite finale secca, come sempre successo prima e dopo, ma al termine di un girone di quattro: in ogni caso, pur se non formalmente, una finale c’è ed è quella che vede i padroni di casa, sempre vincenti, affrontare l’Uruguay. Ai brasiliani basterebbe un pareggio, arriva invece una sconfitta inaspettata e clamorosa che consegna il titolo ancora all’Uruguay, che si conferma imbattuto ai Mondiali in quanto vincitore della prima edizione e assente nelle due successive.

 

#GLI EROI
Il Brasile fa da padrone, alla vigilia, forte di un attacco che ha nell’inarrestabile bomber del Vasco da Gama Ademir la stella più brillante e alle cui spalle agisce uno degli interni più completi nella storia del calcio, Zizinho, che ispirerà con il suo modo di giocare un certo Pelé.
L’Uruguay è forte e ordinato dietro grazie al portiere Maspoli e al centromediano Obudlio Varela, e davanti può vantare autentici assi come Schiaffino, Miguez e Ghiggia. L’Italia campione in carica, che affronta il viaggio in nave visto che ancora è fresca la tragedia aerea che ha distrutto il Grande Torino, ha perso in questa quasi tutta la sua ossatura: può schierare campioni come Boniperti, Carapellese e Amedeo Amedei, ma il lungo viaggio via mare la sfibra e ne causerà l’immediata eliminazione.


Partecipa per la prima volta anche l’Inghilterra, che può vantare campioni un po’ ovunque. In porta Frank Swift, in difesa Alf Ramsey (futuro campione da CT nel 1966) e in attacco un trio da sogno: Tom Finney, Stan Mortensen e il primo Pallone d’Oro della storia Stanley Matthews.
Altre stelle del torneo sono l’americano Joe Gaetjens, autore del gol che causa la prima sconfitta degli inglesi, la coppia d’attacco della Spagna formata da Zarra e Basora e il bomber svedese Hasse Jeppson.

 

#L’EPISODIO
Nell’ultima gara del torneo accade quello che passerà ai posteri come “il Maracanazo”: il 16 luglio del 1950 al “Maracanà” il Brasile affronta l’Uruguay, in palio la vittoria del girone finale. Ai padroni di casa basta un pareggio, e duecentomila spettatori sono giunti per assistere alla festa finale. L’Uruguay tiene botta ma quando all’inizio del secondo tempo Friaça porta in vantaggio il Brasile, tutto sembra ormai andare come da pronostico. Invece Ademir (molto spento) e compagni non reggono la tensione, l’Uruguay mantiene la freddezza necessaria e prima segna il pareggio con Schiaffino al 66° minuto quindi, con un’azione fotocopia, realizza addirittura il gol della vittoria a dieci minuti dal termine con Ghiggia. Quello che accade al fischio finale è incredibile: nel Paese si registrano almeno tre suicidi, la folla inferocita invade il campo con i campioni che non possono neanche festeggiare la vittoria e devono farsi largo tra la folla, non protetti dai poliziotti (brasiliani) anch’essi sotto shock.


Il CT brasiliano Flavio Costa fugge in Portogallo, il portiere Barbosa, a lungo considerato uno dei migliori al mondo nel suo ruolo, trascorrerà il resto della vita venendo evitato e considerato un porta-sfortuna, nonché il colpevole principale della tragedia. Morirà all’età anni, dopo aver trascorsi almeno la metà della sua vita nell’indifferenza generale. La Nazionale Brasiliana svestirà il fino ad allora tradizionale bianco per indossare il verde-oro conosciuto adesso, e tornerà a giocare solo due anni dopo.
Per molti il “Maracanazo” è la pagina più significativa e importante nella storia dei Mondiali di calcio.
 

#IL PROTAGONISTA
Di una scuola calcistica che univa classe sopraffina e grinta feroce, Obdulio Varela fu perfetto rappresentante di quest’ultima qualità. Centromediano metodista, era tanto ruvido e aggressivo quando la palla era agli avversari quanto elementare e grezzo quando la sfera se la ritrovava tra i piedi. Quello che lo rendeva un campione era però il carisma, un carattere da leader di poche parole e molti fatti che ne fece il naturale capitano del Penarol e della Nazionale che si apprestava a tornare sulle scene dei Mondiali dopo ben vent’anni. Una naturale tendenza al comando che gli fece guadagnare il soprannome di “El Negro Jefe” (“Il Capo Nero”) a causa del colore della sua pelle e la somiglianza nel modo di giocare con il mitico “Jefe” Nasazzi, capitano dell’Uruguay Campione del Mondo nel 1930. Aveva trentatré anni quando si svolsero i Mondiali in Brasile; aveva vinto tre campionati uruguaiani e una Copa America nel 1942 con la Nazionale e con il passare degli anni aveva preso a interpretare il suo ruolo in modo più difensivo, un libero ante litteram, un difensore capace di impostare più che un vero e proprio centromediano metodista.


La “Celeste” non era certo la squadretta poco considerata che la leggenda poi ha voluto raccontare, bensì una squadra forte in ogni reparto e molto unita: tuttavia, in pochi avrebbero pronosticato una vittoria finale, specialmente considerando che si giocava al “Maracanà” davanti a ben duecentomila tifosi brasiliani entusiasti e che al Brasile bastava un pareggio. Oltretutto, mentre i rivali avevano stravinto tutte le gare fino a quel momento, l’Uruguay era riuscito a pareggiare con la Spagna (con gol proprio di Varela per il definitivo 2 a 2) e a sconfiggere di misura per 3 a 2 la Svezia.
Ma nel calcio tutto è possibile, e lo sapeva bene Varela, che attaccò al muro un dirigente uruguaiano che prima della gara, negli spogliatoi, aveva detto a lui e ai compagni che in pratica era già un bel risultato essere arrivati fino a lì e che sarebbe bastato perdere con onore. No, Obdulio non ci stava a recitare il ruolo di vittima sacrificale, e fu quello che ribadì anche ai compagni quando il CT Juan Lopez raccomandò alla squadra di giocare sulla difensiva. Appena questi lasciò lo spogliatoio, Varela prese la parola e disse: “Juan è un brav’uomo, ma tutti sappiamo che se ci difenderemo faremo la fine di Spagna e Svezia. La partita si gioca sul campo, undici contro undici. Quando saremo sul campo non guardate la folla. Quelli nella folla sono fatti di legno”. Fatti di legno, già. Varela intendeva dire che i tifosi non giocavano, erano solo spettatori, e non andava fatto caso a loro, alle urla, ai canti forsennati. In campo si gioca uomo contro uomo, e conta la tecnica, si, ma ha una maledetta importanza anche il carattere, e quella squadra caratterialmente non era inferiore a nessuno. Anzi.

Così l’Uruguay attaccò, mettendo in difficoltà i brasiliani in alcune occasioni e zittendo più volte la sterminata “torcida” sugli spalti. Quando alla fine Friaça segnò il gol del vantaggio brasiliano, ecco che Obdulio fece il suo capolavoro: in pochi secondi intuì che i compagni erano moralmente a terra, mentre gli avversari erano gasati, e il rischio di una disfatta era altissimo. Il pubblico rumoreggiava festoso, quando Varela raccolse il pallone in fondo alla rete. Non si diresse a centrocampo, il capitano dell’Uruguay, ma andò invece dal guardalinee a protestare per un fuorigioco che solo lui aveva visto: e lo sapeva.

Era solo una tattica per far sbollire l’entusiasmo di pubblico e avversari, e nei lunghi minuti in cui il gioco non riprese fu proprio ciò che accadde. Così l’Uruguay poté sfruttare la sua grinta e il suo ordine tattico, e prima pareggiò e poi vinse. Set, game, match. Partita, vittoria, Coppa.


“Era tutto previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay. Al termine della partita, avrei dovuto consegnare la coppa al capitano della squadra campione. Un’imponente guardia d’onore si sarebbe dovuta formare dal tunnel fino al centro del campo di gioco, dove mi avrebbe atteso il capitano della squadra vincitrice – naturalmente il Brasile. Preparai il mio discorso e mi recai presso gli spogliatoi pochi minuti prima della fine della partita (stavano pareggiando 1 a 1 e il pareggio assegnava il titolo alla squadra locale).
Ma mentre attraversavo i corridoi il tifo infernale si interruppe. All’uscita del tunnel, un silenzio desolante dominava lo stadio. Né guardia d’onore, né inno nazionale, né discorso, né premiazione solenne. Mi ritrovai solo, con la coppa in mano e senza sapere cosa fare. Nel tumulto finii per scoprire il capitano uruguaiano, Obdulio Varela, e quasi di nascosto gli consegnai la statuetta d’oro, stringendogli la mano, e me ne andai, senza riuscire a dirgli una sola parola di congratulazioni per la sua squadra.” 

(Jules Rimet – Presidente FIFA)


Uno come Varela non poteva concepire di arricchirsi con il calcio, per cui negli anni a venire rifiutò sempre il professionismo: con il premio per la vittoria al “Maracanà”, comprò un auto usata di dieci anni, che gli fu rubata una settimana dopo. Partecipò anche ai Mondiali del 1954, e fu assente per squalifica nella gara che sancì l’eliminazione dei suoi, restando quindi virtualmente imbattuto ai Mondiali. Vinse altri tre campionati con il Penarol, giocò fino a quarant’anni e fu leggenda vivente. Quindi il ritiro, la miseria, l’alcolismo che lo portò alla morte alla soglia degli ottant’anni.
Di lui rimangono immortali quei lunghi minuti successivi al vantaggio brasiliano, l’antefatto di quel che sarà il “Maracanazo”.
Lo sguardo duro, deciso, autoritario, con cui predispone l’uccisione del sogno di un popolo e il riscatto del proprio, più povero tecnicamente ma con un cuore enorme e grinta da vendere.
Qualità che si incarnavano in lui, Obdulio Varela, “El Negro Jefe”.
L’eroe del Maracanà, che anni dopo si dichiarò pentito di quella vittoria: “Per noi fu solo una vittoria, ma per quei poveri brasiliani fu una vera tragedia. Tornassi indietro perderei quella gara.”


Fonti: Wikipedia, “Storia dei Mondiali di Calcio” (Bocchio-Tosco, ed.Sestante)
Editing: Eleonora Baldelli 

 

 


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