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Pop&Sports – Muhammad Ali: icona, difensore dei diritti civili, simbolo di un’era

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“Il pugilato è solo lo spogliatoio, i problemi del mondo sono il ring”
Muhammad Ali

Viviamo in un epoca dove ancora, purtroppo, accadono episodi di razzismo. Le manifestazioni promosse in tutto il mondo, dagli attivisti del movimento Black Lives Matter, ci danno l’opportunità di dare risalto ai tanti campioni sportivi che hanno speso azioni, parole dure e di condanna nei confronti degli episodi di discriminazione, a volte pure condannandoli. Oggi parleremo delle gesta di Cassius Clay Jr., conosciuto da tutti come Muhammad Ali. Un grande pugile, ma prima ancora uomo di colore.

Cassius è stato, senza dubbio, tra i più grandi sportivi che la storia ricordi e celebra, amato per la sua storia personale e per quello che ha significato, continuando ad essere simbolo di rivincita, riscatto e affermazione personale. Ancora oggi fonte di ispirazione per centinaia di migliaia di aspiranti campioni, nello sport e nella vita.
E’ cresciuto pure lui inseguendo un mito: Sugar Ray Robinson. La sua passione è probabilmente nata grazie a questo campione, tanto che, quando lo incontrò a New York nel 1960, gli disse: “Tu sei il mio maestro. Diventa il mio manager…”. Robinson lo liquidò, dicendogli: “Non ora ragazzo, ho da fare”.  Più tardi partì per le Olimpiadi di Roma, conquistano l’Oro olimpico dei pesi medi. L’oro dei pesi massimi andò al boxer italiano Francesco De Piccoli, anche se, all’epoca, il punto di riferimento nel pugilato italiano era Nino Benvenuti. Successivamente, sensibile alla tematica della segregazione razziale, gettò nelle acque del fiume Ohio l’oro vinto a Roma, e solo nel ’96 il Comitato Olimpico gli consegnò una una medaglia sostitutiva.

Nonostante ciò, soddisfatto e vittorioso per la vittoria, tornato negli States decise di prendersi la corona dei pesi massimi, sconfiggendo Sonny Liston, campione in carica, per TKO (abbandono) al settimo round. Eccitato, in un modo forse un po’ troppo arrogante, disse al mondo: “Non ho nemmeno un livido in faccia. Ho appena 22 anni e parlo con Dio ogni giorno. E se Dio è con me nessuno può sconfiggermi: sono il Re del mondo!”. Da quel momento, l’allora Cassius si fece riconoscere, soprattutto per i suoi discorsi provocatori. Il suo carattere spavaldo e spaccone era un novità a quei tempi e il popolo statunitense voleva sapere tutto di lui. Ma non era solo spaccone, aveva anche un gran cuore. Nel ’63, un bambino di 6 anni anni, Patrick Power, fu vittima di bullismo e, per imparare a difendersi, iniziò la box. Clay Jr. lo venne a sapere e decise di invitarlo sul ring, facendolo vincere e dicendogli: “sei veramente forte Patrick!”. Ovviamente non era vero, ma diede un enorme autostima e fiducia ad un cinno che, in quel momento, ne ebbe veramente bisogno. 

Muhammad Ali con Martin Luther King Jr. – lapresse.it

La decisione di cambiare nome. Nella sua lotta al razzismo, non poteva permettersi di avere un nome segregazionista come Cassius, un “nome da schiavo”. Perciò cambiò e decise di prendere il nome datogli dal suo maestro spirituale Elijia Mohammad. In quell’anno arrivò Mohammad Ali e la conversione verso l’Islam, il giorno dopo la vittoria contro Liston. Black Power, i diritti dei neri e l’amicizia con Malcom X, le pantere nere e Martin Luther King Jr: Ali divenne paladino della forza nera e nella lotta per avere gli stessi diritti dei bianchi, che pagò anche caro sulla sua pelle. Clay è stato ed rimane un monumento che si è costruito e imposto tutto da solo, rischiando e perdendo tre anni di vita professionale per questioni politiche. Fu privato nel 1967 del suo titolo mondiale e gli fu impedito di risalire sul ring per il rifiuto di combattere in Vietnam. “Dov’è il Vietnam? In tv. Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”. Una decisione coraggiosa e pagata a caro prezzo.

Questo stop lo fece tornare indietro, ritrovando vecchie amiche: la sconfitta e la rabbia. Ma Clay non si da per vinto: si impegna nel suo sogno di tornare il più grande pugile di tutti i tempi e lo vinse, diventando addirittura il campione mondiale. Nel 1971 il ritorno sul ring di Clay contro Joe Frazier, ma dopo 15 round ecco confermare la sfiducia dei tifosi nel suo ritorno: Frazier sconfigge il campione. Questo non lo scalfì, ma anzi lo fortificò.

Nel 1974, la ricerca della ribalta: Ali in Congo, nella cittadina chi Kinshasa, contro il campione del mondo George Foreman, l’Orso. I pronostici? L’Orso avrebbe battuto la Farfalla. All’ottavo round ecco il verdetto: Clay gli tirò un missile che lo fece andare al tappeto (KO), facendo vincere la Farfalla. Con quel pugno si stava riprendendo tutto, dal titolo mondiale alla gloria, l’orgoglio e l’amore di tutto il mondo.

Muhammad Ali vs George Foreman – lecronachelucane.it

Nel ’75 affronta per la terza e ultima volta Joe Friazier, mettendo in palio il titolo mondiale. L’incontro nelle Filippine, a Manila, decretò la supremazia di Ali (per TKO), in uno scontro che tutt’ora viene denominato “il più brutale mai visto”. Nel 78 l’ultimo titolo, contro la medaglia doro delle Olimpiadi del ’76 Leon Spinks, vincendo anche questo.

Nel 1980 l’ultimo combattimento contro Trevor Berbick: parlava lentamente e balbettava. Sono quelli i primi sintomi del morbo di Parkinson. Solo lui non aveva dubitato di se stesso, dicendo sempre: “Io sul ring posso restare finché son vecchio, perché so lottare e volare via”. Lo fece infatti, finché infatti non ha contratto questo avversario che, purtroppo, ti fa stare al tappeto, sempre. Nel ’96, coraggioso, davanti agli occhi di tutto il mondo Muhammad Ali mostrò al mondo la sua malattia, durante l’accensione dela torcia olimpica nei Giochi Olimpici di Atlanta. Negli anni a venire è apparso in pubblico per sostenere la raccolta fondi per il Muhammad Ali Centre e per la ricerca contro il Parkinson, fino alla sua morte il 3 giugno 2016. 

Icona, difensore dei diritti civili, simbolo di un’era.“Come mi piacerebbe essere ricordato? Come un uomo che non ha mai venduto la sua gente. Ma se questo è troppo, allora come un buon pugile”. Fate voi le conclusioni. 

 

Fonti: Rai / la Repubblica

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