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Amarcord – Pasolini e il calcio: tra Bulgarelli, letteratura e critica dei costumi

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crediti immagine: La Repubblica


A volte la storia ha degli strani ribaltamenti di fronte e attorcigliandosi su stessa crea strane connessioni: è così che Carlo Alberto, militare fascista e comandante della compagnia di sicurezza a presidio di Via dell’Indipendenza il 31 ottobre 1926, il giorno dell’inaugurazione del Littoriale, catturò per primo Anteo Zamboni, mentre il figlio Pier Paolo, difficile da ingabbiare in schemi politici stabili, ma il cui sostegno per il PCI è sempre stato palesato, trentanove anni più tardi calcò i campi del Bologna Fc per porre domande sulla sessualità, la moralità e i costumi sociali italiani in ambito amoroso. Due Pasolini sono legati, per motivi diversi e opposti, ma ugualmente forti, al Bologna. Il rapporto tra i due altro non è che il classico topos, discendente dal mito di Edipo, su cui Pasolini stesso fece un film nel 1967, del figlio che uccide il padre, ma il patricidio porta inevitabilmente con sé dei segni. La posizione socio politica dei due risultò antitetica fin dalla gioventù di Pier Paolo che, pur mostrando nel corso della sua vita alcune chiusure e resistenze al cambiamento, ha sempre rappresentato un movimento intellettuale e artistico di forte rottura con i costumi sociali, di provocazione e di apertura, in conflitto con il conservatorismo del padre: ciò nonostante, Carlo Alberto rimase speranzoso che la vocazione letteraria del figlio potesse dare lui delle soddisfazioni, ma questa illusione cadde nel 1942 quando a Bologna venne pubblicata la raccolta Poesie a Casarsa. Non bastarono, però, le opere pubblicate, la rabbia e il dolore per la morte del fratello Guido, caduto nelle lotte partigiane, né l’iscrizione al partito comunista nel 1947 a creare una rottura definitiva. Un che di insoluto rimase nel loro rapporto fino alla morte di Carlo Alberto, sopraggiunta il 19 dicembre 1958: Pier Paolo, pur consapevole dell’insanabile distanza, dedicò la sua prima raccolta al padre, il quale da questo gesto riuscì a trarre una piccola consolazione,[1] ma essa non fu sufficiente e la loro vita continuò con una convivenza basata sull’odio e il risentimento del genitore verso il figlio, la moglie e, forse, il mondo intero.
Prima di passare a raccontare il rapporto di Pasolini con il calcio, non si poteva non accogliere questo invito offerto dalla storia.

Thomas Mann ne La montagna incantata fece dire a Settembrini, uno dei personaggi del romanzo, che «L’apoliticità non esiste. Tutto è politica» e, se si accetta questo pensiero, non distante dalla centralità dell’educazione artistica e musicale nella Politica di Aristotele, allora non è difficile comprendere come Pasolini, che ha fatto della propria vita e del proprio corpo degli atti politici, abbia potuto trasformare una sua grande passione come il calcio in qualcosa di più denso di significato. Nell’intro si è fatto riferimento a Comizi d’amore, un film inchiesta sulla sessualità e i costumi morali italiani negli anni ’60. In quest’opera Pasolini, in veste di intervistatore, interroga diversi campioni della società coeva, dalle campagne siciliane ai bagnanti della Versilia, alcuni membri di spicco del jet set, come Peppino di Capri e Graziella Granata ed esponenti della comunità intellettuale italiana, quali Moravia, Ungaretti, Musatti, Fallaci e Cederna. Vicino a queste figure, appaiono anche alcuni giocatori del Bologna, di cui Pasolini era tifoso: Pavinato, Pascutti, Negri, Furlanis e Bulgarelli. Quest’ultimo è stato colui che, in contrasto con le reticenze degli altri, soprattutto di Negri, si mostrò maggiormente consapevole delle influenze che l’educazione e un certo tipo di morale cattolica hanno avuto sulla sua crescita e formazione sessuale. È noto come Pasolini avesse una predilezione per Bulgarelli, un vero e proprio amore dimostrato più volte e culminato con l’offerta di un ruolo ne I racconti di Canterbury, declinato dal centrocampista bolognese. L’affetto verso il giocatore rossoblù è evidenziato anche nel saggio Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, pubblicato su Il Giorno il 3 gennaio 1971, dove venne definito dallo scrittore come «prosatore realista», innalzandolo a simbolo di un’intera categoria e Edy Reja, a sottolineare ulteriormente la passione pasoliniana, in un’intervista per il centenario della sua nascita ha raccontato di come Pasolini gli chiedesse sempre aneddoti su Bulgarelli. Infine, è lo stesso ex capitano rossoblù a raccontare un aneddoto sulle riprese di Comizi d’amore, riportato in Il calcio secondo Pasolini di Valerio Curcio, dove ricorda come al momento dell’intervista ci fu una fuga da parte dei suoi compagni di squadra, spaventati dal dover parlare di argomenti inerenti alla sessualità, a differenza sua che, invece, si prestò schiettamente.

Pasolini è stato un amante non solo del Bologna e dei suoi protagonisti, ma del calcio tutto a cui ha dedicato numerose pagine tra saggi, racconti, come Reportage sul Dio, e carteggi privati. Molte sono le lettere a tema calcistico scambiate con Paolo Volponi e Vittorio Sereni, altri due grandi scrittori amanti del calcio, il primo di fede bolognese e il secondo interista. In queste missive il loro tifo è ricondotto a una primigenia passione, quasi irrazionale, che nel luogo dello stadio riesce a mettere in pausa il mondo circostante, creando uno stato di isolamento. A tal proposito è significativo riportare le parole presenti nell’autobiografia di Franco Citti, attore e regista scoperto da Pasolini che lo rese protagonista di Accattone, il quale scrisse «una volta sola l’ho visto incazzato davvero. È stato quando andammo all’Olimpico a vedere Roma-Bologna e la sua squadra perse 4 a 1. La febbre del calcio, comunque, che forse non era riuscito a consumare al punto giusto quando da piccolo viveva in Friuli, non riusciva proprio a togliersela». Sicuramente l’affermazione ha un tono ironico e provocatorio, ma fa ugualmente riflettere come il sentimento di rabbia più puro provato da Pasolini, la cui figura è storicamente connotata dalla polemica e dalla sofferenza, venne ricondotta da Citti, suo profondo conoscitore, a una partita di pallone. D’altronde, in un’intervista rilasciata a Guido Gerosa per L’Europeo il 31 dicembre 1970 è egli stesso a dichiarare che «il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».
Per concludere, tra le tante immagini di Pasolini calciatore, voglio citare quella della partita tra la troupe di Salò o le 120 giornate di Sodoma e Novecento: il 16 marzo 1975, per festeggiare il compleanno di Bernardo Bertolucci, le riprese di entrambi i set vennero interrotte dando vita a questo match che si tenne alla Cittadella, il campo di allenamento del Parma. Pensando a Salò e al destino che da lì a pochi mesi attendeva sia il film che il suo autore, è ironico pensare a questa giornata in cui l’ultimo lavoro di Pasolini, il primo capitolo di quella che avrebbe dovuto essere la Trilogia della morte, venne interrotto per un giorno di piacere vitalistico e di gioco libero. In fondo, come detto da Dacia Maraini, «Pier Paolo andava avanti con la testa rivolta indietro. Inseguiva un sé stesso bambino che scappava. Quando giocava, quel bambino prendeva corpo assieme al pallone; quando finiva di giocare, tornava l’adulto inquieto e doloroso che era diventato».[2]

[1] Notizie tratte da una scheda autobiografica scritta da Pier Paolo Pasolini nel 1960 e pubblicata da l’Unita il 4 novembre 1975, due giorni dopo la sua morte
[2] Affermazione presente ne Il calcio secondo Pasolini di Valerio Curcio

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