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Bologna

Come te nessuna mai

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“Orgoglioso di essere bolognese”.
Non mi hanno mai esaltato le maglie con caratteri cubitali, a Bologna diciamo che sono un pò da “maragli”, ma questa potrebbe essere davvero la maglia ideale.
Non a caso la mia felpa preferita, quella che indosso sempre allo stadio, è blu, con la scritta rossa Bologna che campeggia da parte a parte.
Il mio rapporto con la città in cui sono nato e cresciuto è viscerale, quasi morboso.
E va di pari passo col folle amore per la squadra di calcio; ma oggi, inebriato dai 5 gol a Fiorentina e Cagliari e dagli undici punti di vantaggio sulla terzultima, voglio parlare solo di Bologna.  
 
La amo, senza se e senza ma.
Sono orgoglioso del nostro prefisso, 051.
Sbandiero con un sorriso a 32 denti il finale del mio codice fiscale, quell’A944 che sta a significare senza possibili dubbi le mie radici.
Per dire come son messo, sono affezionatissimo anche al codice di avviamento postale, quel 40100 scritto tante volte su lettere e cartoline in epoca pre-computer e in assenza di telefonini.
 
Siamo come una tribù, riconoscibile per l’accento (la nostra inconfondibile esse), per il modo di fare un pò scanzonato e scherzoso e soprattutto per alcune espressioni solo nostre, incomprensibili ai più.
La nostra spazzatura è il rusco
Schiacciare il pulsante che apre il portone di un palazzo per noi è dare il tiro.
Il freddo invernale è zanio (o polo), mangiare è taffiare, la sigaretta è la paglia, i soldi sono la pilla, il riposo è il polleggio, dormire è gubbiare, mentre il dormiveglia è l’ abbiocco.
L’auto è il ferro, l’ubriaco è il bresco, il post-ubriacatura è la cassa, lo stato semi-incosciente da alcool o droga è la fattanza, un rimprovero pesante è una cioccata, il bambino è un cinno prima di diventare dopo i 12/13 anni uno sbarbo.
Il tipo che piace alle donne è una gran cartola, l’abbigliamento giusto è l’intappo, la pancia è la buzza, i capelli sono il bulbo, la compagnia di amici la balotta, un oggetto (o persona) inutile è un bagaglio (o un zavaglio), uno poco sveglio è un lesso, il fenomeno che non perde occasione per farsi notare è uno sborone.
Sotto un temporale, noi stiamo prendendo un batedo d’acqua; quando conosciamo il modo per evitare un problema facendo un pò i furbi abbiamo una bazza; se sorprendiamo qualcuno che fa una cosa di nascosto, lo boccheggiamo; per chiudere una discussione diciamo bona lè, non ne voglio più mezza; se picchiamo uno, lo bussiamo; quando ci stanchiamo di fare qualcosa ci scende la catena e gliela diamo su.
Per fare un complimento a un amico gli diciamo che è di un’altra e per dirgli invece che è proprio messo male gli diciamo che è di ultima (sempre sottinteso “categoria”); quando ci diamo delle arie, ci facciamo il viaggio; se siamo senza soldi non abbiamo un ghello, mentre se siamo tirchi, abbiamo della pluma; se cerchiamo di conquistare a parole una ragazza che ci piace la intortiamo.
Se siamo in un posto rumorosissimo e pieno di gente, diciamo che c’è un gran paglione; uno che ci rompe le scatole, continuando a parlare di cose inutili, ci sta tirando una gran pezza; di una ragazza magari non bella ma con un fisico da urlo, diciamo che ha un gran telaio; se ci mettiamo troppi problemi, abbiamo delle pare; a uno che potrebbe farci fare una brutta figura in pubblico diciamo di non fare il suo numero.
Potrei continuare per altre dieci pagine, ma capisco che sto rendendo il racconto un piccolo Stelvio per i non bolognesi e allora facciamo basta e smetto di intomellarvi (è più forte di me, devo uscire da questo corpo!!!). 
 
Quand’è che mi sento bolognese al 100%?
Quando torno da una vacanza o da un viaggio e in lontananza comincio a vedere il Santuario di San Luca che si staglia sulla collina.
In quel momento ho la sensazione di essere di nuovo “a casa“, ed è qualcosa di magico che solo noi bolognesi possiamo capire, un senso di appartenenza e di protezione che attenua anche il dispiacere del ritorno al lavoro.
E ancora, aspettare la primavera per fare un bel giro domenicale sui colli, passeggiare a notte fonda per le vie deserte del centro respirando la città, godersi la bellezza di via Santo Stefano e delle “sette chiese”, sedersi sui gradini di San Petronio per ammirare lo splendore di Piazza Maggiore, cercare uno dei pochi (ahimè) cinemini rimasti nel centro storico per poi commentare il film davanti a una birra in via del Pratello, trovarsi tutti in edicola a comprare il giornale all’una di notte (abitudine ormai perduta purtroppo), passare una serata con gli amici in una delle nostre amate osterie, farsi il sabato pomeriggio in centro coi nostri percorsi a quadrilatero (via Marconi, angolo piazza dei Martiri, via dei Mille, via Indipendenza, via Ugo Bassi, oppure via Rizzoli, Piazza Maggiore, Portico del Pavaglione, via Farini, via D’Azeglio).
E il trafficatissimo covo universitario di via Zamboni, la suggestiva piazza San Francesco, le mitiche Due Torri, la statua del Gigante, le viuzze dietro il portico del Pavaglione con le vecchie botteghe, i forni notturni per l’ultimo pezzo di crescenta o il bombolone prima di andare finalmente a dormire.
Purtroppo l’aria che si respirava anni fa dentro le mura è sempre più un ricordo e i sapori del bel tempo che fu ormai sono più argomento di conversazione che vita reale, ma Bologna per tanti anni è stata questo e quelli della mia generazione hanno fatto in tempo a godersi qualcosa che adesso sembra il classico “c’era una volta”.
 
Bologna è una donna emiliana di zigomo forte, 
Bologna capace d’ amore, capace di morte, 
che sa quel che conta e che vale, che sa dov’ è il sugo del sale, 
che calcola il giusto la vita e che sa stare in piedi per quanto 
colpita…”. 
Così descriveva Bologna nel 1981 il grande Francesco Guccini.  
 
Pier Paolo Pasolini diceva “bella e dolce Bologna! Vi ho passato sette anni, forse i più belli.”
 
Ippolito Nievo scrisse: “Per finir poi di parlarvi di Bologna, dirò che vi si viveva allora, e vi si vive sempre, allegramente, lautamente, con grandi agevolezze di buone amicizie, e di festive brigate”.  
 
E queste erano le parole di Rino Alessi, scrittore e giornalista del secolo scorso: “Bologna era bella, amabile, degna di essere goduta con l’anima e la carne. Si usava dire la “grassa Bologna” volendo alludere più che al peso degli abitanti, alla loro carnalità, al loro amore per la buona tavola e alle sane conseguenze fisiologiche di questo amore. Dietro le luminose vetrine della libreria Zanichelli aleggiava ancora lo spirito eternamente corrucciato del Carducci.”
 
E proprio un verso di Giosuè Carducci recitava “Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna. E il colle di sopra, bianco di neve, ride.”
 
Io amo da impazzire questa città e non riuscirò mai, anche sotto tortura, ad ammettere il suo lento degrado. 
Forse il tempo non torna più, come diceva Fiorella Mannoia, ma sono certo che in qualsiasi momento, anche fra 20 anni, mi basterà uscire una sera in buona compagnia, farmi una bella passeggiata sotto i portici, cenare in uno dei ristorantini incastonati nel centro storico e perdermi in chiacchiere seduto su un muretto di Piazza Santo Stefano per sentirmi di colpo in Paradiso.
 
Cara, vecchia Bologna….come te, davvero, nessuna mai.

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