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GRANDI ALLENATORI #04: Herbert Chapman, il “Sistema” e non solo

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Uno dei più grandi cambiamenti tattici, regolamentari e culturali nella storia del calcio vede la luce in una data precisa e con un padre certo.

11 febbraio 1925, First Division inglese, il pubblico di Bury assiste a un noiosissimo 0-0 casalingo contro il Newcastle. Si tratta della sesta partita consecutiva in cui i Magpies bianconeri riescono a mantenere la porta imbattuta, ma invece di lodarne l’impresa, la stampa e la dirigenza calcistica inglese giudicano il fatto scandaloso. Il Newcastle, di fatto, rinuncia a giocare, concentrandosi unicamente su un meccanismo difensivo, divenuto ormai talmente collaudato da rendere le partite che lo vedono protagonista spezzettate, noiose, prive di emozioni.

Il “merito” è del difensore nord-irlandese Bill McCracken, che ha studiato talmente a lungo la tattica del fuorigioco da riuscire a padroneggiarla con una maestria che non ha eguali: a un suo preciso segnale il compagno di difesa, Hudspeth, si lancia sul portatore di palla tagliando gli altri attaccanti fuori dal gioco, dato che la regola dell’offside allora in uso prevede che per essere in gioco un calciatore debba trovarsi dietro la linea di tre avversari.

La moda del ricorso continuo alla “tattica del fuorigioco” l’ha lanciata il modesto Notts County, ma poi tutte le squadre inglesi si sono in qualche modo adeguate una volta comprese le potenzialità, e anche se nessuno padroneggia questa strategia meglio di McCracken – che per questo sarà ricordato come il “padre” del cambiamento della regola – il football non è più quel gioco bello, aperto e vigoroso di una volta. Si segna poco, ci si annoia, e i dirigenti della FA, che hanno da poco conquistato lo scettro di “sport più amato dagli inglesi”, non possono permettersi il rischio di compromettere tutti gli sforzi fatti dai primi grandi pionieri.

Nel giugno del 1925, concluso il campionato, ecco che la regola viene finalmente cambiata: dal campionato successivo – e fino ad oggi – basterà avere davanti a se due giocatori, invece che tre, nel momento in cui si riceve la sfera da un compagno con un passaggio in avanti. Una regola molto più semplice, che dovrebbe garantire spettacolo e lo garantirà: dalla misera media, per i tempi, di 2,58 gol a partita si passa immediatamente a quella di 3,69. Un incremento notevole, per un campionato che torna spettacolare e che vede il terzo trionfo consecutivo dell’Huddersfield Town, impresa mai riuscita prima a nessuno e che, anche se ancora nessuno lo può immaginare, sarà il canto del cigno del club.

A guidare i Terriers campioni, nella prima stagione con la nuova regola dell’offside, è il misconosciuto Cecil Potter, ma tutti sanno chi è il vero artefice del trionfo, ovvero l’uomo che ha guidato come manager il club nei trionfi delle due stagioni precedenti. Ha lasciato Huddersfield proprio nell’estate del 1925, mentre il fuorigioco cambiava: lo ha fatto attratto dai soldi dell’Arsenal e anche dalla possibilità di costruire sul mercato una squadra fortissima, che possa segnare un’epoca.

Il suo nome è Herbert Chapman, e sarà proprio lui a diventare famoso grazie al cambio delle regole e all’invenzione di un nuovo modulo tattico. Gli inglesi lo chiameranno “Chapman System”, da noi sarà ufficialmente noto semplicemente come “Sistema”, “WM” o “3-2-2-3”.

Al suo primo anno a Londra Chapman porta i Gunners al secondo posto, venendo sconfitto proprio da quell’Huddersfield che ha creato quasi dal nulla e che supera gli avversari per appena 5 punti, frutto di esperienza e di un’ormai maturata convinzione nei propri mezzi. Tuttavia il seme del cambiamento è già stato gettato, e trasformerà l’Arsenal in una vera big del calcio inglese e della storia stessa del gioco.

Avendo appurato che con la nuova regola è necessario utilizzare il centromediano (5) con compiti prettamente difensivi, Chapman rinuncia a giocatori talentuosi nella costruzione, in questo ruolo, per inserire invece il modesto Herbie Roberts, volitivo e diligente, dal gioco essenziale. Senza più il sostegno del centromediano, i laterali di centrocampo (4 e 6) coprono il vuoto venutosi a creare accentrandosi e agendo come veri e propri centrocampisti difensivi, ricevendo l’aiuto degli interni di centrocampo (8 e 10) già abbassati in Europa nel Metodo e adesso registi a tutti gli effetti. Possibile che per quest’ultimo cambiamento Chapman, che sviluppa il suo “Sistema” direttamente dalla Piramide di Cambridge, abbia comunque attinto anche ai grandi manager europei Pozzo e Meisl. Un fatto non comune all’epoca, in un football inglese che si sente di non avere niente da imparare, e che dimostra la grande apertura mentale del mitico allenatore. In attacco vengono mantenute le due ali, che a turno cercano di dar manforte al centravanti.

Nato nei sobborghi di Rotherham, di umili origini – il padre lavorava in miniera – Herbert Chapman era stato da giovane uno studente brillante, arrivando a laurearsi in ingegneria, e un calciatore modesto. Nel corso dei numerosi trasferimenti di cui fu protagonista come amateur footballer finì per lavorare nella città dove si trovava a giocare, non raggiungendo mai il professionismo a differenza del fratello minore Harry, due volte campione d’Inghilterra con lo Sheffield Wednesday e poi scomparso a soli 37 anni per via della tubercolosi.

Leggenda vuole che la carriera di quello che forse è stato il manager più importante della storia nasca proprio negli spogliatoi, quando un esausto Chapman, dopo aver disputato l’ennesima infruttuosa partita con il Reserve Team del Tottenham Hotspur, si trovi ad ascoltare il compagno Walter Bull. Questi è stato raccomandato al Northampton Town, per il ruolo di manager, proprio da Chapman, che ha buone conoscenze in seno alla dirigenza avendovi giocato anni prima. Intende però rifiutare, vuole ancora fare il calciatore, ed è così che i ruoli si invertono, ed è Bull a raccomandare Chapman, che a 29 anni appende di fatto gli scarpini al chiodo.

Se la carriera come footballer è stata più che mediocre, quella di manager sarà un successo nonostante una partenza non felice: Chapman fa appena in tempo ad emergere, prima con il Northampton e poi con il Leeds City, che i suoi discussi metodi vengono messi in discussione dalla Football Association. I sospetti di pagamenti sottobanco ai propri giocatori – e anche a quelli che vengono acquistati – si fanno certezza quando Chapman rifiuta di consegnare i libri contabili del club, e le conseguenze sono pesanti: il Leeds City fallisce (verrà rifondato solo nel 2005) e Herbert Chapman viene squalificato a vita.

L’esilio per fortuna durerà invece appena tre anni, il tempo necessario a colui che intende diventare un grande manager – e che ha già dimostrato di averne la stoffa – di dimostrare che ha agito soltanto per proteggere la sua squadra, senza essere il responsabile degli illeciti in quanto impegnato, da buon cittadino inglese, a lavorare in una fabbrica d’armi durante la Grande Guerra. Assunto da un amico del defunto fratello come assistente, si trova a guidare l’Huddersfield quando questi, Ambrose Langley, abbandona il ruolo di manager per occuparsi dei propri affari privati.

Finalmente di nuovo in sella, Chapman modella una squadra che tradisce già negli intenti la Piramide soprattutto nel ruolo del centromediano, che gradualmente si è trasformato da punta a interno e poi a centrocampista puro: bene, Chapman interpreta questo ruolo con giocatori prettamente difensivi, trasformandolo in uno stopper vero e proprio, deputato a controllare il centravanti avversario e a giocare scolasticamente il pallone sui mediani.

Dando anche grandissima attenzione alla preparazione fisica, istituisce allenamenti specifici tesi a migliorare la resistenza e riprende alcune idee già sperimentate con successo in passato, come le discussioni con la squadra sulla tattica da adottare e attività collettive come il golf, le cene, che aiutano a creare il gruppo. L’Huddersfield Town, con Chapman alla guida per quattro anni, vince una FA Cup e due volte di seguito il campionato, risultati mai più raggiunti se non l’anno successivo alla sua partenza, quando la squadra evidentemente è ancora quella creata da lui.

Come i più grandi, lascia proprio all’apice: e non lo fa soltanto per i tanti soldi che offre l’Arsenal, ma anche perché ottiene garanzie precise sul fatto che il mercato sarà importante e che l’ultima parola su acquisti, cessioni e formazione – in un’epoca in cui ancora la strategia viene scelta dal board dei club – sarà la sua. E sarà incontestabile.

L’Arsenal guidato da Herbert Chapman dal 1925 al 1934 sarà leggenda ben al di là dei titoli conquistati, che sono una FA Cup e due campionati. I Gunners vengono letteralmente segnati da questo genio visionario, che disegna le maglie che tutti conosciamo aggiungendo le maniche bianche al completo tutto rosso e poi indovinando uno dopo l’altro tutta una serie di colpi di mercato clamorosi. Non è quanto vince, è come vince che conquista: l’Arsenal è una macchina, cambia il calcio inglese e la sua mentalità, si impone.

Sempre grazie a Chapman i londinesi sono il primo club a giocare una partita trasmessa in radio, il primo club a giocare una gara ripresa dalle telecamere (un’amichevole tra la prima squadra e le riserve) e ad avere una fermata della metropolitana, quella che lascia i tifosi davanti a Highbury, dedicata. Chapman rende normali cose che prima di lui non esistevano. I team talk con la squadra prima, durante e dopo la gara; la cura della parte atletica con l’adozione di fisioterapisti, preparatori atletici e massaggiatori; il Sistema, che in breve tempo soppianterà il Metodo anche in Europa; le amichevoli internazionali tra club, che precedono la nascita delle coppe europee di ben vent’anni; la cura dei rapporti interpersonali tra i giocatori; la responsabilità attribuita a un uomo, e uno soltanto, delle scelte che riguardano la squadra in sede di mercato e di formazione.

Primo vero e proprio manager, Herbert Chapman cambia il calcio, come nessuno ha fatto prima di lui, anche battendosi per tanti accorgimenti che rendono il gioco più giusto e attraente, ingaggiando per primo giocatori di colore e stranieri di livello, studiando il gioco praticato nel Continente con mente aperta grazie ai contatti che tiene regolarmente con l’austriaco Hugo Meisl e con il di lui mentore, Jimmy Hogan. A lui si devono inoltre l’adozione dei numeri da 1 a 11 sulle divise di gioco, l’adozione dei palloni bianchi per rendere più accattivanti le riprese televisive e l’utilizzo sempre più frequente dei riflettori, che renderanno le gare giocate di sera un fatto normale e non eccezionale.

Un uomo così profondamente legato al calcio non può che morire mentre vi è immerso: accade il 6 gennaio del 1934, quando spossato da una settimana intensa in cui ha girato in lungo e largo l’Inghilterra sotto un tempo inclemente, per seguire le sfide degli avversari dell’Arsenal e poi la squadra riserve, sforza il suo fisico oltre le raccomandazioni dei medici finendo per contrarre una polmonite fulminante che lo uccide ad appena 55 anni. Un’età ancora giovane, la fine di una vita tanto breve quanto intensa e ricca di significato: perché se è vero che senz’altro il football è esistito anche prima di Herbert Chapman, è altrettanto lampante che dopo di lui – e grazie a lui – è stato tutt’altra cosa.

Una statua lo ricorda fuori dall’Emirates Stadium, intento a osservare, quasi un secolo dopo, il team che ha contribuito a rendere leggenda.

(Foto di apertura: tribundergi.com / La moneta dell’offside: eBay / Statua all’Emirates Stadium: sportskeeda.com)


PUNTATE PRECEDENTI:

#01: Jack Hunter e la “Piramide di Cambridge”

#02: Mitchell, Ramsay e Sudell, i maestri dell’800

#03: Pozzo, Meisl e l’avvento del “Metodo”

 

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