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GRANDI ALLENATORI #05: Gusztáv Sebes, Hidegkuti e la rivoluzione ungherese

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25 novembre 1953, “Wembley Stadium”, Londra.

Il mondo del calcio assiste alla più grande rivoluzione che questo sport abbia mai vissuto. L’Inghilterra sfida l’Ungheria, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Helsinki l’anno precedente, in quella che in tanti si sono affrettati a definire “la partita del secolo”. Nonostante le premesse, nonostante il cieco ottimismo e l’orgoglio di chi si sente ancora padrone del gioco che ha inventato, gli inglesi lasceranno il campo, 90 minuti dopo, sconvolti come i tanti giornalisti che hanno assistito alla gara.

Sir Tom Finney, confinato impotente in tribuna, citerà il francese Gabriel Hanot: “È stato come vedere dei cavalli da tiro tentare di correre dietro a dei cavalli da corsa”. Finisce 6-3 per i magiari, già in vantaggio per 4-1 alla mezz’ora di gioco e assolutamente padroni del campo. È una disfatta che non segna l’inizio del declino dei “maestri del football”, ma che semmai lo certifica: anche se qualche caduta rovinosa già c’era stata (come ad esempio la clamorosa sconfitta contro gli Stati Uniti ai Mondiali del 1950) mai l’Inghilterra aveva ceduto così di schianto, mai in casa propria, mai contro dei continentali.

Furiosi, e convinti di aver semplicemente beccato una giornata negativa, gli inglesi, che possono vantare campioni del calibro di Stan Mortensen e Stanley Matthews, chiederanno una rivincita a Budapest, uscendone ancora una volta con le ossa rotte: in casa propria quelli che ormai sono noti come The Mighty Magyars annientano gli avversari con un 7-1 che non ammette repliche e si candidano così al ruolo di principali favoriti negli imminenti Mondiali di Svizzera del 1954.

Come sia nata, questa squadra straordinaria, capace di zittire con così tanta prepotenza quelli che si consideravano – ormai si può dirlo, a torto – i padroni del calcio, è leggenda. Avendo a lungo vissuto a stretto contatto con l’Austria, l’Ungheria ne ha ammirato e appreso lo stile calcistico, ispirandosi al famoso Wunderteam di Hugo Meisl e Matthias Sindelar. Soltanto che, dal 1930, i tempi sono cambiati: il Metodo (2-3-2-3) è tramontato, sostituito dal Sistema (3-2-2-3) inventato da Herbert Chapman e che ha trasformato il calcio in un gioco estremamente fisico, testimoniato alla perfezione dai modelli di centravanti utilizzati dai nuovi cultori del gioco.

Nel Sistema il centravanti ideale è grosso, potente, coraggioso, apre gli spazi ed è il fulcro del gioco, avendo perso la funzione iniziale che nel periodo vittoriano lo vedeva agire più come regista offensivo, abile a dialogare con gli interni. C’è stata la rivoluzione nella regola del fuorigioco, e così il centre-forward è passato dall’avere le fattezze di GO Smith e Vivian Woodward, eleganti ed eterei, a quelle dei poderosi Dixie Dean e Ted Drake, colossi capaci di affrontare i difensori avversari in selvaggi corpo a corpo e di uscirne spesso vincitori.

C’è soltanto un problema: in Ungheria questo tipo di centravanti non esiste. Il primo ad accorgersene è stato Márton Bukovi, tecnico del MTK Budapest: è ricorso al mercato, acquistando il rumeno di origini ebraiche Norberto Höfling, ma quando questi dopo appena un anno è stato ceduto alla Lazio ha capito che piuttosto che far giocare in un ruolo qualcuno di non adatto era meglio, senz’altro, rinunciare completamente a quel ruolo. Forse nasce così, grazie a Bukovi, quello che oggi chiameremmo falso nueve e che ai tempi diventerà noto come “centravanti arretrato” oppure, grazie al suo più grande interprete, “centravanti alla Hidegkuti”.

È proprio Nandor Hidegkuti, nella sfida di Wembley, la chiave di volta del gioco magiaro. Schierato con il numero 9, fa letteralmente impazzire Billy Wright, considerato all’epoca il più grande difensore al mondo, allontanandosi dall’area e arrivando quasi fino alla linea di centrocampo. Qui, ricevuto il pallone, Hidegkuti può sia smistarlo sulle ali che tentare il dialogo con gli interni, senza considerare che può ancora, personalmente, puntare la porta avversaria. I difensori, del resto, lo aspettano lì, a bordo area, non sapendo come altro comportarsi: seguirlo fino a metà campo, del resto, lascerebbe sguarnito il reparto arretrato, destinato ad essere superato dalla classe degli interni e dalla vivacità e velocità delle ali, tutti giocatori di valore assoluto.

Il creatore della “Grande Ungheria”, anche nota come Aranycsapat (“la squadra d’oro”) è un uomo del da poco insediato partito comunista, un fine stratega che riesce ad unire perfettamente la propaganda alla gestione di una Nazionale che mai prima è stata così forte. Si chiama Gusztáv Sebes, è stato un discreto calciatore e passerà alla storia come uno dei più grandi allenatori di sempre nella storia del calcio. 

Il Partito gli ha portato via due giocatori fondamentali. Il miglior difensore, Sándor Szűcs, e il centravanti poderoso, la macchina da reti, quello che mancava, Ferenc Deák: entrambi si sono dimostrati insofferenti ai rigidi voleri del comunismo che governa il Paese, e se il secondo è stato semplicemente allontanato dal calcio che conta, e costretto a giocare in squadre minori per tutta la carriera, il primo è finito addirittura impiccato, condannato per alto tradimento e monito per quei calciatori che avessero anche solo pensato di lasciare l’Ungheria senza conseguenze.

Quello che il Partito ha tolto, tuttavia, lo ha ridato a Sebes sotto forma di una squadra, la Honved, che ha visto il concentramento forzato di tutti i più grandi talenti calcistici espressi dalla Nazione: essendo la squadra dell’esercito, e non esistendo del resto il professionismo, quella che era una squadra mediocre si è trovata letteralmente imbottita di campioni ed è diventata un vero e proprio laboratorio per la Nazionale. Una condizione necessaria per diventare grandi, secondo Sebes, che si ispira del resto all’Austria e all’Italia degli anni ’30, costruite su forti “blocchi”.

L’Ungheria dominerà il calcio mondiale per anni, passando dalla vittoria olimpica del 1952 a Helsinki alle batoste inflitte agli inglesi, per terminare la sua corsa proprio sul più bello, all’ultima gara, quella più importante, la finale dei Mondiali del 1954 che passerà alla storia come “Il Miracolo di Berna”. 

Lo fa grazie a un sistema di gioco che rivoluziona ogni reparto, anche se resterà nella storia soprattutto per il ruolo di centravanti arretrato interpretato da Hidegkuti. In difesa, davanti all’eccezionale Gyula Grosics, il possente Gyula Lóránt si trova in difficoltà, vista l’attitudine innata dei terzini, Buzánszky e Lantos, di avanzare a supporto dei compagni. Ecco così che nella coppia di mediani uno dei due, il rude Zakariás, arretra spesso a dar manforte e, in pratica, pone le basi per la prima difesa a quattro mai vista, un’idea già espressa dal calcio sudamericano con il ruolo di volante.

L’altro mediano si chiama József Bozsik, ed è uno dei migliori centrocampisti di ogni epoca: abile in ogni fondamentale, ha il fosforo necessario per agire come regista e la corsa che serve per “allungare la squadra”, proiettandosi in avanti dove può anche far male grazie a uno straordinario tiro dalla distanza, potente e preciso. Non avendo spesso il supporto, nel dialogo, di Zakariás, che come detto rimane spesso a coprire la difesa, si appoggia su Nandor Hidegkuti, stella del MTK Budapest che quasi per caso è diventato il vero protagonista di quello che tutti chiamano “Calcio Socialista”.

Interno offensivo naturale, dotato di estro, dribbling, inventiva e poca fisicità, Hidegkuti è stata la prima scelta di Sebes nel momento in cui è stato chiaro che Deák non sarebbe più stato chiamato per volere del Partito e che, in pratica, si sarebbe ricorso al centravanti arretrato ideato da Bukovi. Schierato all’ala, o come interno, ha fatto la sua parte nell’oro olimpico a Helsinki, ma Sebes è convinto che possa fare ancor meglio del già ottimo Péter Palotás, che il ruolo lo interpreta alla grande ma senza la necessaria genialità. La svolta è avvenuta contro la Svizzera, in amichevole, quando il CT ha tolto proprio Palotás alla fine del primo tempo, spostando al suo posto Hidegkuti: l’Ungheria, che perdeva 0-2, ha vinto 4-2.

Il resto della linea offensiva, quella che per intenderci si trova libera di fare a pezzi le difese avversarie grazie ai movimenti imprevedibili del suo centravanti, è di primissima qualità: le ali sono di qualità, veloci e imprevedibili (spicca Zoltán Czibor, folletto che nelle giornate di grazia è capace di fare di tutto) mentre gli interni hanno nomi che sono mito, storia del calcio. Sándor Kocsis è, di fatto, un centravanti, un attaccante vero e proprio, un goleador: segna a ripetizione e in qualsiasi modo, soprattutto di testa (per questo in Italia sarà noto come “Testina d’Oro”) e a fine carriera vanterà uno score presenze/reti in Nazionale clamoroso: 68 gare, 75 gol, 153 reti in 145 partite con l’Honved e il titolo di capocannoniere dei Mondiali del 1954.

L’altro interno, il numero 10, è ancora migliore. È uno dei più grandi giocatori della storia, è the galloping Major, Ferenc Puskás. Regista, finalizzatore, assist-man, leader: Puskás è tutto questo e anche di più, è la stella della squadra, la punta di diamante, capace di irridere qualsiasi difensore con il suo dribbling eccezionale e di trovare la porta da qualunque distanza e posizione. In campo fa, semplicemente, quel che vuole, basandosi sui movimenti di Hidegkuti e Kocsis e diventando l’incubo di ogni difesa al mondo.

La fine della Grande Ungheria è sfortunata e ingloriosa: dopo essere stata imbattuta per oltre tre anni, la “squadra d’oro” cade nella finale dei Mondiali del 1954 contro la Germania Ovest, dopo averla dominata due settimane prima con un roboante 8-3 nei gironi e dopo aver condotto anche in finale per 2-0. I tedeschi occidentali lottano e rimontano, vincendo 3-2 anche grazie a un sospetto – ma mai provato – doping e a un Puskás che non gioca benissimo, avendo appena smaltito, e non del tutto, un infortunio causato molto probabilmente con volontarietà dal difensore Liebrich proprio durante l’8-3 avvenuto nei gironi preliminari. 

Vittima del sistema, che poco gradirebbe una vittoria ai Mondiali dei “comunisti”? Vittima di se stessa, della sua boria, dell’eccessiva sicurezza nei propri mezzi? Vittima della sua stella, Puskás, che chiede ed ottiene di giocare in finale nonostante condizioni non ottimali? Poco importa, quel che conta è che l’Ungheria manca l’appuntamento con la storia per un soffio, quindi come un sogno bellissimo ma breve scompare per non tornare mai più.

Accade durante la Rivoluzione Ungherese, quando i carri armati sovietici invadono Budapest mentre l’Honved è fuori dal Paese per la Coppa dei Campioni. Puskás e compagni prima riparano in Italia, poi nella Spagna franchista, che certo non ha paura di offendere quei Paesi sotto l’influenza sovietica come appunto l’Ungheria. I campioni dell’Aranycsapat si sfideranno ancora sui campi spagnoli, Kocsis e Czibor nel Barcellona e Puskás nel Real Madrid, stella nonostante un’età ormai avanzata.

Manca l’appuntamento con la storia, la “Squadra d’Oro”, ma non con il mito: visto che nel calcio non contano soltanto i trofei, ma anche le sensazioni, i clamori, le rivoluzioni, l’Aranycsapat di Gusztáv Sebes resterà per sempre nella leggenda grazie al suo gioco scintillante e alla sua rivoluzione tattica. Prima grande squadra a mostrare le parvenze di un 4-2-4, l’Ungheria resterà una splendida incompiuta capace di cambiare, un giorno, la storia del calcio. Una favola, un mito, che tanti bambini ungheresi ascolteranno rapiti mentre giocano per le strade di Budapest, ammaliati da quell’uomo ormai anziano che vive di ricordi e racconta di miti del pallone: Gusztáv Sebes.


PUNTATE PRECEDENTI:

#01: Jack Hunter e la “Piramide di Cambridge”

#02: Mitchell, Ramsay e Sudell, i maestri dell’800

#03: Pozzo, Meisl e l’avvento del “Metodo”

#04: Herbert Chapman, il “Sistema” e non solo

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