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Calcio

Se questo è calcio – 04 mag

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Ho trentacinque anni. Amo il calcio da quando ne avevo cinque e l’ho sempre amato nella sua interezza. Amo il gioco, di per sé, i gesti tecnici, gli accorgimenti tattici, la storia che c’è dietro a quella palla che rotola in ogni angolo del mondo.
Ho sempre apprezzato chi tifa per una squadra, chi la segue dappertutto, chi si lascia emozionare, chi esulta, chi ride, chi piange. Non mi è mai appartenuto questo sentimento ma riesco a capirlo. Come capisco chi si identifica in un club, poiché è il sale del calcio: non bisogna certo essere scozzesi per capire cosa ci sia dietro al tifare Rangers o Celtic di Glasgow; non bisogna essere juventini, interisti o milanisti per capire cosa abbiano significato queste squadre nella storia del calcio in Italia così come non bisogna essere di Bologna per capire perché si tifi una squadra che non vince mai ma che in passato fu gloriosa: magari lo si fa per orgoglio cittadino, o per affetto verso quei nonni che ce ne hanno sempre raccontato la storia.
Sono solo esempi. Il punto è che il tifo è la parte più importante del calcio, insieme ovviamente a quei ventidue signori che sul campo fanno lo spettacolo. Uno spettacolo che senza tifosi non avrebbe senso così come non avrebbe senso uno show senza pubblico. Il calcio sono quindi tutti quelli che ridono, che soffrono, che seguono la propria squadra, che la incitano, che cantano. E io amo il calcio e ovviamente amo chi tifa.

Quelli che ieri sera si sono resi protagonisti dell’indecoroso spettacolo andato in scena prima fuori e poi dentro lo Stadio Olimpico di Roma, però, non sono tifosi.
Non lo è Daniele De Santis detto ‘Gastone’, che ha provocato i tifosi del Napoli conscio di avere una pistola, che ha poi usato per difendersi riducendo un ragazzo tra la vita e la morte. Ultras della Roma, già noto alle forze dell’ordine per aver causato il rinvio di un derby anni fa e per aver ricattato a nome dei tifosi l’allora presidente Sensi minacciando vandalismi e violenze. Ebbene, mentre tanta brava gente è a casa senza saper come sfamare la famiglia, un individuo del genere gestiva un chiosco fuori dallo Stadio. Ci deve essere qualcosa che mi sfugge.
Così come ci deve essere qualcosa che mi sfugge nel caso del capo dei tifosi napoletani, l’ormai tristemente famoso “Genny ‘a carogna”, che ha potuto chiedere e ottenere un colloquio con Hamsik prima della gara, scavalcare l’inferriata e parlarci viso a viso (non credo che tutti possano farlo) a due passi da poliziotti incuranti. Un petardo ferisce un pompiere, poi inizia la gara, con la placida benedizione del capo ultras, che a fine partita pensa bene di fomentare gli animi – perché era proprio il caso… – andando a festeggiare sotto la curva dei tifosi della Fiorentina. Mentre la polizia chissà dov’era e a far cosa. Il mondo intero ha parlato di questa cosa, e come sempre noi italiani siamo qui a darci addosso l’uno con l’altro: “è colpa dei cori razzisti”, “è colpa dei napoletani”, “al sud c’è questa cultura”, “ma che cultura e cultura”, e non ci rendiamo conto che la colpa è di tutti.


Di quelli che continuano a dire che “il calcio è così, queste cose sono sempre successe”, non rendendosi conto che anche se fossero sempre accadute davvero, non per questo non possono essere interrotte. Di quelli che dicono che “la squadra prima di tutto”, quando prima di tutto dovrebbe venire l’uomo, il rispetto per il prossimo, e mi si perdonerà se sembrerò retorico ma qui mi pare davvero che in tanti se lo scordino.
Dando uno splendido assist a chi pensa che i tifosi del calcio, in fondo, sono dei “coglioni”: dei “poveretti” che amano uomini in mutande che danno calci a un pallone, ma che per il resto niente sanno e niente vogliono sapere del mondo “civile”.
La colpa è di chi permette a certi personaggi di camminare liberi e, liberamente, di far danni, di chi magari anzi si unisce a questi gruppi, che riconoscono questi capi, che niente sarebbero se fossero isolati. Di certi delinquenti ma anche delle autorità, incapaci di prendere posizioni forti per non rischiare di perdere una parte di elettorato e che quando lo fanno sono miopi e colpiscono nel mucchio invece di punire solo i veri colpevoli. La colpa è anche delle società stesse, che tante, troppe, volte si piegano a questi pseudo-tifosi per paura di ritorsioni e vandalismo e che non capiscono che i veri tifosi non smetterebbero mai di amare una squadra per proteggere un pugno di delinquenti.
La colpa è di chi non ha mai capito, o voluto capire, che siamo un popolo solo, che non ha senso fare del campanilismo, o meglio, ne ha se porta a risate e sfottò ma non se diventa causa di violenza, paura e morte. 


Giuseppe Plaitano, Vincenzo Paparelli, Stefano Furlan, Marco Fonghessi, Antonio De Falchi, Celestino Colombi, Salvatore Moschella, Vincenzo Spagnolo, Fabio Di Maio, Antonino Currano, Sergio Ercolano, Ermanno Licursi, Matteo Bagnaresi, Gabriele Sandri, Filippo Raciti: tutti morti, in circostanze diverse, per essersi trovati in uno stadio, dove teoricamente si dovrebbe solo assistere a una partita. A volte per colpa degli altri tifosi, altre a causa di forze di polizia spesso inadeguate a gestire certe pericolose situazioni. Raramente per una casualità. E sicuramente dimentico qualcuno. E non conto chi, come il povero Ivan Dall’Olio, non è morto ma per sempre porterà su di sé i segni di quei momenti. Lui è rimasto sfigurato da quel giorno di giugno, fine della stagione 1988/89; Ciro Esposito, il ragazzo ferito ieri, potrebbe rimanere per sempre paralizzato. Ragazzi, persone come noi.
È veramente il caso di domandarsi se questo è il calcio che vogliamo. È veramente il caso di domandarsi se questo è calcio, lo sport che amiamo, fatto di grandi artisti del pallone che invece spesso finiscono per essere motivo di discussione, di odio, di rabbia. Un giorno qualcuno dovrà rendere conto di tutto questo, mentre chi non lo segue penserà che chi ama il calcio è un poveraccio, che niente altro ha nella vita.


Come sarebbe bello dargli torto. Come sarebbe bello rendere gli stadi sempre come sono a volte, spettacoli di tifo e coreografia, luoghi di striscioni brillanti e irriverenti, a volte anche geniali. Come sarebbe bello che chi sta fuori dallo stadio potesse aver voglia di entrarvici, mescolarsi a quei colori, a quelle bandiere, a quella passione.
La passione, già. Quella che criminali, gente armata, che ricatta le società, che incita al linciaggio di chi ha una diversa fede, sta uccidendo.
Il calcio è dei tifosi, ma questi personaggi non sono tifosi. Sono più simili a delinquenti, e come tali andrebbero isolati, abbandonati da chi invece magari – per fede comune e un assurdo senso dell’onore – finisce per spalleggiarli o addirittura ergerli a protagonisti. Pagare un biglietto, farsi una trasferta, non dà diritto a nient’altro che seguire una partita: e lì puoi tifare, puoi fischiare, puoi piangere e ridere. Ma mai dovresti poter dimenticare che sei, prima di tutto, un uomo.
Non è questione, ovviamente, di essere ultras oppure semplici spettatori. È questione di essere veri tifosi oppure no. E allora proviamoci, tutti insieme: restituiamo il calcio ai tifosi, togliamolo dalle mani di chi più che da tifoso, si comporta da delinquente. Freghiamocene delle autorità miopi, degli pseudo-tifosi, di chi va allo stadio per fare del male o farci un business.
Isoliamoli, diamo loro un esempio di civiltà. Se un giorno gli stadi venissero chiusi, certa gente andrebbe semplicemente a far danni da un altra parte: nostra sarebbe la sconfitta, saremmo noi a perdere il gioco che tanto amiamo. 

Ho trentacinque anni. Amo il calcio, questo gioco, da quando ne avevo cinque. Ma non ho mai creduto che possa davvero valere la pena vivere, e morire, per un gioco.
 

EDITING: Eleonora Baldelli

 

 

 

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