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Tutto calcio che Cola #13: Appunti Mondiali #03 – 25 Giu

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Il giorno dopo quel che rimane è quell’avvilente aria di fallimento. La notte non è bastata a smaltire la delusione del secondo Mondiale consecutivo che vedrà i tifosi azzurri fare da spettatori dopo appena il primo turno, le dimissioni di Prandelli e Abete possono sembrare una parziale consolazione per chi non ha mai creduto in un progetto tecnico mai decollato, ma l’amara verità è che in Italia, nel calcio come in questioni molto più serie, l’impressione è che (citando John Carpenter in “Fuga da Los Angeles”) più le cose cambino più restino le stesse.

Per intenderci: Prandelli ha commesso sicuramente degli errori. Ricoprire di responsabilità Balotelli, per esempio. Mario ha fallito, mostrando al mondo i propri limiti e non le proprie qualità, ed è mancata un’alternativa credibile. Immobile, invocato dalla critica miope come salvatore della patria e nuovo Totò Schillaci o Paolo Rossi della situazione, è senz’altro punta capace, ma si poteva prevedere che la mancanza di esperienza internazionale avrebbe pesato sulle sue giovani spalle, e del resto si parla di un giocatore ancora “da farsi”, non di un campione affermato. Capocannoniere della Serie A, certo, ma di una Serie A mai così povera.

Balotelli dunque: fuori dal gioco, poco ispirato, a tratti irritante. Eppure dargli tutte le colpe di un fallimento, quando è evidente che è mancata pure una manovra che in qualche maniera lo mettesse nelle condizioni di colpire, sarebbe ingiusto. In 3 gare l’Italia ha espresso la miseria di 6-7 tiri in porta, difficile pensare che la colpa possa essere solo del finalizzatore.
Prandelli e Balotelli, dunque. Progetto fallito, ma non solo per colpa loro. Nel dopo partita in tanti hanno avuto parole di fuoco verso i giovani, eppure a parte “Super-Mario” i ragazzi azzurri non se la sono cavata poi male: Darmian è stato senz’altro uno dei più positivi, De Sciglio ha aumentato i rimpianti sul suo infortunio, Verratti – tolta qualche leziosità eccessiva – è stato uno dei più concreti sia ieri che all’esordio contro gli inglesi.
 


A proposito, diciamolo: la vittoria contro l’Inghilterra aveva illuso un po’ tutti. Eppure, guardando tra le pieghe di quella gara e con il senno di poi, si trattava di poca roba. Poca roba gli inglesi, usciti con la miseria di un punto conquistato con un Costa Rica appagato, poca roba l’Italia stessa, che aveva stentato terribilmente a prendere le misure di un avversario prevedibile e tecnicamente di livello non eccelso. Chiellini aveva mostrato fin da allora il suo imbarazzo a trattare il pallone una volta in possesso, e in una squadra che ambisce a giocare un calcio di possesso è inaccettabile avere giocatori di così scarsa grana tecnica. La gara era stata tutto sommato ben condotta, eppure il punteggio qualche dubbio poteva farlo venire. 2 a 1, 4 tiri in porta di cui una punizione di Pirlo, che anche ieri contro l’Uruguay è stato il solo a impegnare (se così si può dire) il mediocre Muslera.
Che andava invece bombardato, aspettando un suo errore. E invece no, il pari bastava per passare il turno e gli azzurri hanno preso la cosa alla lettera, non forzando mai il ritmo ma attendendo come per miracolo che il tempo passasse senza sussulti. Per carità, questo Uruguay è davvero poca cosa: un duo d’attacco di classe mondiale, ma per il resto una squadra di onesti mestieranti e poco più. L’espulsione di Marchisio poteva essere evitata, il gol di Godìn, per quanto il centrale dell’Atletico non sia nuovo a queste realizzazioni, è arrivato su un calcio da fermo, probabilmente il pari – e il conseguente passaggio del turno – sarebbe anche potuto arrivare. Ma poi?

Guardando la Colombia vista finora, difficile pensare che il nostro torneo sarebbe potuto durare un turno in più. Troppo lenti, di gamba e di pensiero, i nostri. Troppo confusi tatticamente, e questo è un errore che purtroppo appartiene a Prandelli ma anche a tutto il calcio italiano, incapace di produrre giocatori abili nel tenere alto il ritmo, cosa che lo stesso CT ha denunciato a fine gara prima di abdicare. Vedere i nostri stentare contro molti scarti della A italiana (Arevalo Rios, i subentrati Stuani e Ramirez) mette una grande tristezza, ma è del resto indicativo di un movimento calcistico in forte declino, dove la prima in classifica ha fatto oltre 100 punti e l’ultima a salvarsi ha potuto collezionarne la miseria di 34. E quando un movimento calcistico è in crisi, e le squadre migliori si esprimono grazie all’apporto di talenti stranieri, c’è qualcosa che decisamente non va.
Pirlo: signor regista, piede fino e grande intelligenza tattica, nessuno può metterlo in dubbio. Però passo e giocata non certo rapidi, se non lo supporti con campioni quali Vidal e Pogba rischi di esporlo a troppe bufere. E in attacco, del resto, Cassano non vale certo il Tevez bianconero, né Balotelli il più concreto Llorente.

Certo, è uscita anche la Spagna. Che valorizza i vivai, che ha un buon numero di autoctoni nelle proprie squadre di riferimento, che ha un torneo decisamente più competitivo. Ma le ragioni sono diverse: le “Furie Rosse” sono uscite al termine di un ciclo in cui hanno vinto tutto e in cui la riconoscenza eccessiva verso i propri eroi da parte del CT Del Bosque ha senz’altro pesato. Il “Tiki-Taka” ha senz’altro fallito, ma lo ha fatto dopo aver portato a casa due Europei e un Mondiale incantando il mondo.
Guardando invece la storia della nostra Nazionale, ci rendiamo conto di come questo fallimento assomigli terribilmente a quello del 2010, che giunse in un girone sicuramente più scarso ma che fu causata dai soliti limiti, e cioè l’incapacità di fare gioco, di imporre il proprio talento agli avversari.
Come spiegare altrimenti il fatto di vedere squadre ben più scadenti di noi tentare rapide verticalizzazioni, triangoli, contropiedi e azioni ben orchestrate? Una partita la puoi perdere, un Mondiale lo puoi fallire, ma quel che fa rabbia e toglie speranza per il futuro è come questo accade. Senza grinta, senza la rabbia e la decisione di mettere alle corde il Costa Rica nonostante un’ora di tempo a disposizione per recuperare un gol di svantaggio, senza il fiato di attendere l’Uruguay e poi di ripartire con decisione verso la porta. Giocavano due punte, ieri, e si diceva che così la pericolosità sarebbe aumentata, eppure ditemi cosa hanno combinato.
Per cui paragonarci alla Spagna e al suo fallimento ha poco senso: un Mondiale lo puoi fallire, ma se hai un progetto tecnico, tattico e generazionale difficilmente la storia si ripete. Se non ce l’hai, invece, puoi solo sperare che gli episodi ti dicano bene, una tattica che però nel calcio può produrre solo affermazioni estemporanee. Quando hai i campioni che fanno la differenza, beninteso.

Perché noi italiani siamo maestri nella marcatura, nell’adeguarci agli altri e spesso anche nell’annullarli, ma il calcio moderno richiede anche una chiara idea tattica quando la palla è tra i piedi. Richiede velocità nella transizione dalla fase difensiva a quella d’attacco, ed è questo che più di tutto è mancato oggi e nel 2010 rispetto al 2006, l’anno in cui conquistammo il titolo pur non mostrando certo un calcio scintillante.
Un’altra Italia, senza dubbio. Altri campioni, come Buffon, Cannavaro, un Pirlo giovane e un attacco di gran classe, che poteva trasformare in oro anche quelle 3-4-5 palle che venivano prodotte. E adesso?
Via Prandelli, dubito che il nuovo CT sarà capace di cambiare una mentalità così radicata come quella che ci ha sempre contraddistinto calcisticamente e che in assenza di campioni veri risulta giocoforza fallimentare.
Si parla di giovani, ma chi mastica un minimo di calcio sa che giovane non corrisponde a bello in modo così automatico. I giovani il nostro calcio li esprime, in questo momento di crisi economica più che in passato, dove invece si puntava sui campioni affermati. Serve più che altro una mentalità diversa, cambiare radicalmente dei concetti che sono sempre stati alla base del nostro calcio, e cioè preoccuparsi dell’avversario, chiunque esso sia, e non lasciare che sia lui a preoccuparsi di noi. Ci provò Arrigo Sacchi, cultore della mentalità “da imporre sempre”, ma per quanto abbia perso un Mondiale ai rigori (dove Lippi lo ha vinto) è stato considerato un fallimento, anche per via di una “religiosità tattica” impossibile da portare in una Nazionale che non è né mai sarà una squadra di club, capace quindi nel tempo di mandare a memoria un modulo tattico. Personalmente qualche spicciolo lo punterei su Luciano Spalletti, abile gestore di uomini e bravo nell’adattare le sue idee calcistiche agli uomini a disposizione. Allenatore propositivo, che cerca un gioco semplice ma improntato all’attacco. Perché la verità è che morso di Suarez a parte, espulsione di Marchisio a parte, se non attacchi non tiri, se non tiri non segni, se non segni non vinci. Ragionamento semplicistico, vero, ma che chi indossa la maglia azzurra sembra fare fatica a recepire.
E allora, stando così le cose, è giusto che il Mondiale se lo giochino altri. Aspettando, e sperando, che i fallimenti insegnino qualcosa.

Editing: Sara Vasi 

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