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Ciao Sinisa: il ricordo di un uomo

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crediti immagine: Damiano Fiorentini - 1000 Cuori Rossoblu

La vita sa essere ingiustamente dura e lasciare segni indelebili nella crescita di una persona. Questa durezza, a volte, ti colpisce fin dalla nascita e i suoi effetti sono in grado di temprare e rendere adulti bambini che dovrebbero pensare solo al divertimento. È un’ingiustizia, ma chi è dotato di indole più combattiva sa trasformarla in una forza. Se nasci a Vukovar nel 1969, nel pieno del governo del maresciallo Tito, in una famiglia povera e di etnia mista, madre croata e padre serbo, il tuo destino è segnato. Mihajlovic, raccontando i primi anni della sua vita, parlava della fame come unica costante e della consapevolezza di un talento innato da coltivare per potersi salvare. Parole che implicavano una grande autocoscienza e un grande senso di responsabilità. Le cose, però, peggiorarono quando a fine anni Ottanta si iniziarono a vedere i segni di una crisi irreversibile che portò nel 1991 a una terribile guerra fratricida. Il primo anno e mezzo di conflitto lo visse nella sua Serbia quando giocava per la Stella Rossa, con cui 1991 vinse una storica Coppa dei Campioni, e di quel periodo ricordava bene il fischio delle bombe e la paura che esse incutevano. In quell’anno vide per l’ultima volta, salvo tornarvi venticinque anni dopo, la sua città natale senza riconoscerla, trovando in essa solo devastazione e morte. Il suo modo di raccontare quegli eventi è sempre stato molto crudo ed evocativo ed è necessario riportare le parole ricche di umanità rilasciate in un’intervista per La Gazzetta dello Sport: «Ricordo lo sguardo di due ragazzini di 10 anni, imbracciavano i mitra. Avevano occhi da uomini in corpi da bambini. Occhi tristi che avevano già visto tutto, tranne l’infanzia. Uno dei due si è avvicinato, mi ha chiesto chi fossi. Penso spesso a quel bambino, sapere che fine ha fatto. Se la guerra non se l’è portato via, oggi è un uomo. Magari ha moglie e figli. Spero che quegli occhi diventati adulti abbiano ritrovato un po’ di luce».[1] L’anno dopo si trasferì alla Roma, ma questo non lo allontanò con il cuore e con la testa dalla guerra che i suoi genitori continuavano a vivere in prima persona, con il padre minacciato di morte dallo zio materno che a sua volta rischiò di venire ucciso dalla Tigre Arkan, personaggio cruciale della guerra e della vita di Sinisa, salvo poi ricevere la grazia proprio in nome del nipote. I vicini diventano nemici e così può succedere che il tuo migliore amico distrugga la tua casa e che lo spirito patriottico di tuo padre sia tale da non voler scappare, da rifiutare gli inviti del figlio in Italia e da non resistere a Budapest, dove per qualche tempo aveva trovato rifugio, e tornare a Belgrado. Può anche succedere che mentre arrivi con il resto della nazionale jugoslava a Belgrado per una tesissima amichevole con la Croazia, indipendente da 1991, tu debba scappare per le minacce delle bombe lasciando di nuovo lì la tua famiglia. Questi sono solo alcuni episodi della vita del giovane Sinisa, momenti, però, significativi per capire a fondo il perché di quel carattere brusco e ruvido, a volte anche oltre il limite.

L’Italia è stata per lui una seconda casa, un paese in cui ritrovare un po’ di stabilità e costruirsi una nuova vita. A Roma ha trovato l’amore con Arianna Rapaccioni e in Italia sono nati e cresciuti i sei figli a cui è stato vicino, cercando di essere presente nell’assenza intrinsecamente legata alla sua professione, non dimenticando la sofferenza per non aver potuto vedere suo padre prima di morire. In Italia, poi, arrivato già con un folto palmares internazionale, si è consacrato come calciatore tra Roma, Sampdoria, Lazio e Inter: con quest’ultime due è riuscito a ottenere tutti i trofei nazionali a disposizione e con i biancocelesti anche una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa. Difensore arcigno e ruvido, come il suo carattere, è stato un giocatore in grado di rendersi molto pericoloso anche in fase offensiva, più di cento gol e innumerevoli assist in carriera, grazie soprattutto alla sua capacità di calciare le punizioni. Ancora oggi Mihajlovic con 28 segnature detiene, in coabitazione con Pirlo, il record in questa specialità per la Serie A ed è stato l’unico nella storia del nostro campionato a realizzarne tre su calcio diretto nella stessa partita, Signori ne realizzò lo stesso numero, ma due furono indirette.
C’è poi il capitolo nazionale: 62 presenze con la Jugoslavia condite da 10 reti, una all’esordio Mondiale nel 1998 contro l’Iran, ovviamente su punizione, e un’apparizione nel 2003 con la Serbia e Montenegro, la seconda partita della storia della nazionale con questo nome. Questa fu l’ultima volta da giocatore con la sua rappresentativa e, simbolicamente, non poteva che concludersi con un espulsione, tante nella sua carriera, dopo soli 26 minuti. Da allenatore, però, ha coronato anche il sogno di allenare tra il 2012 e il 2013 la sua nazionale, questa volta con il nome Serbia.

Sinisa Mihajlovic era una persona e, come tale, fatto di luci e ombre. Non sono trascurabili le controversie legate alla sua vita e, in particolare, alla sua fede serba. Tra queste si possono ricordare l’elogio funebre di Arkan, riconosciuto colpevole di crimini di guerra, celebrato non come militare, ma come amico e successivamente criticato da Mihajlovic stesso per la sua condotta in guerra o per affermazioni, in parte comprensive, su figure macchiatesi di gravi colpe, tra cui il genocidio, come Mladic e Milosevic. Non ha mai difeso la guerra e gli stermini, ma da persona coinvolta e consapevole anche di alcuni meccanismi della propaganda ha talvolta ecceduto di patriottismo e parzialità. Gli eccessi, poi, si sono visti anche in campo: due su tutti lo sputo a Mutu e gli insulti razzisti a Vieira. Nel secondo caso, pur riconoscendo le proprie parole, Mihajlovic le ha sempre ricondotte a un eccesso da campo, ugualmente deprecabile, e non a un reale sentimento discriminatorio che lui, avendolo subito per tutta la vita, riteneva estraneo alla sua persona. Questi gesti e queste parole, qualsiasi sia la loro radice, sono errori gravi e non giustificabili, pur potendo capirne l’origine, ma in un ricordo dell’uomo Sinisa non possono essere tralasciati, soprattutto perché lui è sempre stato pronto a parlare della sua fallibilità e dei suoi sbagli. È lui il primo che non avrebbe voluto santificazioni. Bisogna, però, anche ricordare una sua dichiarazione passata in sordina: a fine agosto, in un momento di crisi internazionale molto forte nei Balcani, a una domanda su Moro, neoacquisto del Bologna, ha dichiarato che in quanto croato per lui, serbo, era un fratello. Parole forti visto il suo passato e visto il momento.

Infine, il capitolo Bologna. Nei suoi quattordici anni in panchina per due volte ha guidato la squadra rossoblù, per lui alfa e omega della carriera. Mihajlovic, infatti, ha avuto con il Bologna la sua prima esperienza da allenatore e, dopo molti cambi squadra, compresa l’importante esperienza al Milan, è tornato sotto le Due torri dove è rimasto dal gennaio 2019 fino al settembre 2022. Con la città e con tutte le persone interne ed esterne alla società, Sinisa è stato in grado di creare un profondo legame non solo professionale, ma soprattutto umano. Nella sua seconda esperienza è stato una guida paterna con i giocatori, spesso molto giovani, riservando a loro sia la parte amorevole che quella severa, si veda come caso emblema Barrow, uno di quelli che ha più sofferto emotivamente il suo esonero, tanto protetto, quanto criticato dal suo ex allenatore. A luglio del 2019 si è presentata l’ennesima dura sfida della vita di Mihajlovic: la leucemia. Il modo in cui, con tanti sacrifici, Sinisa ha combattuto è stato un esempio. Come si confaceva alla sua persona non hai mai cercato nessun pietismo e parlando in maniera schietta della malattia ha sempre rifuggito ogni possibile identificazione con essa. Non voleva essere e non era Sinisa il malato, ma Sinisa la persona che tangenzialmente aveva anche una malattia. Non ha mai mollato un solo giorno, si è presentato ad allenamenti e partite in condizioni sconsigliate dai medici perché ritenute troppo faticose e quando era obbligatoriamente lontano si faceva sempre sentire tramite video. Il suo carattere è rimasto duro, ma con questa sfida è nata in Sinisa anche una dolcezza non espressa a parole, ma evidente nei suoi occhi e nei suoi gesti e, anche quando vilmente insultato attraverso i suoi problemi, non si è mai scomposto. L’addio al Bologna a settembre è stato un dolore per tutti, un momento necessario, ma che nessuno avrebbe voluto, nulla, però in confronto a quello provato adesso. Come redazione vogliamo prima di tutto abbracciare la famiglia e stringerci attorno a loro.
Ciao Sinisa.

 

 

[1] Di Caro Andrea, “Mihajlovic fa 50: “Ho avuto e visto tutto: rivorrei solo mio padre””, La Gazzetta dello Sport, 20 febbraio 2019

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