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Danimarca 1992, vacanzieri sul tetto d’Europa

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Alcuni vecchi e scontati adagi del calcio ci ricordano spesso che “il pallone è rotondo”, che “la partita dura 90 minuti” e che “si gioca pur sempre undici contro undici”. Sono verità incontestabili, antiche quanto è antico il pallone, e anche se viviamo in un’epoca di giganti e formiche, di coppe e campionati che finiscono quasi sempre nelle mani delle solite note, il calcio si diverte periodicamente a ricordarci che si, è vero: il pallone è davvero rotondo, chi scende in campo è davvero umano, e in quanto tale capace di qualsiasi impresa. Come quella di vincere un torneo riservato ai più forti quando fino a dieci giorni prima neanche dovevi partecipare, di farlo da Cenerentola snobbata da tutti, senza il tuo miglior giocatore e con il tuo capitano che vive un drammatico momento personale. Accade in Svezia, nel 1992, quando la Danimarca si issa sul tetto del continente conquistando la nona edizione dei Campionati Europei di calcio.

Questa favola, a dirla tutta, nasce da un incubo. Quello che sconvolge la Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, quando quella che da noi sarà chiamato ‘Guerra dei Balcani’ sancisce la dissoluzione del Paese con “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”, l’uomo nel bene e nel male capace di tenere insieme tante diversità ma che una volta scomparso non ha avuto eredi capaci di seguirne le orme. Quando la Jugoslavia cessa di esistere, cessa di farlo anche “il Brasile d’Europa”, cioè la sua Nazionale di calcio, che nella storia del football ha lasciato più di un segno e che si preparava ad affrontare gli Europei da protagonista dopo essersi qualificata (in un girone comprendente anche Danimarca, Nord Irlanda, Austria e Fær Øer) grazie alle 10 reti del bomber macedone Pančev, che in seguito sarà un bidone del calcio nostrano ma che allora era considerato uno dei migliori attaccanti d’Europa. Che squadra, quella Jugoslavia: “il Genio” Savićević, il funambolico Stojković, una pletora di talenti che tale resta anche dopo l’abbandono dei croati – per motivi politici – quando mancano appena due partite alla conclusione del girone. Agli Europei non ci saranno, i vari Boban, Šuker e Prosinečki, ma non ci sarà neanche la Jugoslavia: la UEFA lo decide quando mancano pochissimi giorni all’inizio del torneo e nello stesso momento comunica alla federcalcio danese che i giocatori della Nazionale – che sono in stragrande maggioranza ormai in vacanza – devono prepararsi per prenderne il posto.

La rosa messa insieme dal CT Richard Møller-Nielsen è discreta, sulla carta, ma non qualcosa di più: dei venti uomini presenti ben otto arrivano da Brøndby e Lyngby, gloriose squadre nazionali ma che si esprimono in un campionato che certo non figura tra i più competitivi al mondo. Sette sono invece i giocatori che sono sotto contratto con un club estero, e si tratta delle stelle della squadra: il portiere Schmeichel (destinato a diventare uno dei migliori al mondo), il terzino Sivebæk, il talento offensivo di 23 anni Brian Laudrup, che gioca nel Bayern Monaco ma quell’estate verrà in Italia, alla Fiorentina. La situazione sarebbe senz’altro migliore se ci fosse il fratello di Brian, Michael, grande protagonista nella Serie A degli anni ’80 e che al momento della chiamata gioca nel Barcellona e lo definisce “la sua unica Nazionale” in aperta polemica con Møller-Nielsen, a suo dire non abbastanza rispettoso – per non dire invidioso – del suo talento. Meglio così, sosterrà il CT: per andare in battaglie servono uomini veri, non artisti. Servono persone come il capitano di quella squadra, il poderoso mediano Kim Vilfort: trent’anni, mai stato all’estero se non per una breve esperienza in Francia, è uno che non si tira mai indietro e il cui nome, al termine di quei fantastici Europei, sarà spesso associato all’impresa. Già, perché tutti parlano di Vilfort il 16 giugno del 1992: gli Europei sono già cominciati, la Danimarca ha pareggiato 0 a 0 con l’Inghilterra – consueta delusione – e poi ha perso con i padroni di casa della Svezia, stesa da un gol di Tomas Brolin. Il giorno successivo si giocherà la qualificazione alle semifinali nell’ultima gara del girone, contro la Francia di Blanc, Deschamps, Cantona e Papin. Ma dovrà farlo senza il suo capitano: Vilfort è stato infatti mandato in ospedale dalla figlia di otto anni, Line, malata di leucemia che si è improvvisamente aggravata.

Nessuno sembra credere nella qualificazione, nessuno tranne i giocatori danesi, che la sera del 17 giugno realizzano una vera impresa: dopo aver sbloccato la gara con una rete di Larsen, abile a raccogliere una sponda aerea e a mettere il pallone in gol, vengono raggiunti dallo straordinario Papin al 60° ma passano ancora quando mancano poco più di dieci minuti al termine della sfida grazie a Lars Elstrup, attaccante di buon livello e uomo assai controverso: un anno dopo, trentenne, abbandonerà il calcio per unirsi a una setta anarco-buddista chiamata “Oca Selvaggia”, assumendo il nome di “Darando” (“il fiume che scorre”) in cerca di una poco chiara purificazione spirituale e sparendo dai radar calcistici e non. Torniamo a noi: la Danimarca ha raggiunto a sorpresa la semifinale, dove affronterà l’Olanda, e per premio i giocatori ricevono dal CT Møller-Nielsen un regalo insperato, e cioè la visita in ritiro di mogli e fidanzate. Tutti sorridono, tutti tranne Vilfort, che è rimasto in Danimarca accanto alla figlia ma che quando viene interrogato dal tecnico sul sentirsela o meno di giocare una gara storica risponde che si, ci sarà, giocherà e lotterà per la Danimarca, per i compagni e per la piccola Line.

Quella che va in scena tra danesi e olandesi il 22 giugno del 1992 è una vera battaglia, una partita fondamentale contro gli oranje campioni d’Europa in carica: guidata in panchina dal santone Rinus Michels, l’ideatore del ‘Calcio Totale’, l’Olanda può schierare moltissimi talenti quali Gullit, Rijkaard, Van Basten e Bergkamp e propone un calcio offensivo e sicuro di se, forse pure troppo. Infatti, dopo appena cinque minuti, Brian Laudrup semina il panico sulla destra ed effettua un preciso cross che Larsen, da pochi passi e con la porta spalancata, non deve fare altro che infilare in rete di testa. Al 23° pareggia Bergkamp con uno splendido tiro al volo, ma dieci minuti dopo i danesi, per nulla abbattuti o intimoriti, passano ancora con una rete molto simile a quella olandese: a scoccare il tiro vincente è ancora Henrik Larsen, lo stesso che ha sbloccato la gara e lo stesso che aveva portato in vantaggio la Danimarca contro la Francia. In carriera Larsen, comparsa in Italia con la maglia del Pisa di Anconetani, segnerà appena cinque gol in Nazionale: tre di questi, però, come abbiamo visto saranno pesantissimi. La dimostrazione di quanto questa Danimarca sia forte caratterialmente arriva nel secondo tempo della gara: l’Olanda, sicuramente più talentuosa, si butta in avanti e schiaccia i rivali nella propria area, e nonostante le belle parate di Schmeichel trova il pareggio nel finale, all’86° minuto, quando ormai forse non ci crede neanche più. È Rijkaard a segnare, sfruttando un rimpallo in area in seguito a un calcio d’angolo, e a quel punto sono davvero pochi quelli che pronosticano una reazione danese. Invece gli uomini di Møller-Nielsen non solo riescono a non perdere la testa e a contenere i più forti avversari nei tempi supplementari, ma hanno la meglio ai calci di rigore, quando nessuno sbaglia dal dischetto tranne il più forte e atteso di tutti, “il cigno di Utrecht” Marco Van Basten, che si fa ipnotizzare da Schmeichel al secondo tentativo olandese. Quando Christofte realizza l’ultimo rigore ecco che tutti devono concordare: i miracoli, nel calcio, possono accadere. E quella Danimarca, formata da giocatori in vacanza, senza il suo miglior giocatore eppure così bella e combattiva, ne è la prova.

Non rimane che la finale, un ultimo ostacolo che però ha un nome altisonante: si tratta della Germania che due anni prima ha vinto i Mondiali di Italia ’90 e che nei grandi appuntamenti difficilmente sbaglia. Ai danesi, inoltre, mancherà l’esterno destro Andersen: cresciuto in Belgio, è uno dei migliori e più esperti calciatori della selezione, ma nei supplementari della sfida con l’Olanda si è scontrato con Van Basten rompendosi il ginocchio in sette punti diversi. Ma ricordate cosa dicevamo all’inizio? La partita dura 90 minuti, la palla è rotonda e in campo in fin dei conti si va sempre in undici contro undici. La Danimarca è bella, ha raccolto le simpatie di chiunque, può tentare l’impresa con la consapevolezza di non avere niente da perdere. È così che allo stadio Ullevi di Göteborg, il 26 giugno del 1992, gli uomini di Møller-Nielsen si presentano carichi e per nulla battuti sulla carta: la Germania non li sottovaluta, forse, ma di certo non si attende tanta baldanza, quella che i nordici mettono in ogni contrasto, e l’incoscienza di John Jensen: mediano tipicamente difensivo, ama tentare il tiro dalla distanza ma la sua mira nel torneo non è stata delle migliori, al punto che dopo un altro tiraccio effettuato nel riscaldamento ha avuto una lunga discussione con il CT, che infuriato gli ha intimato di restare indietro e di smetterla di tirare. Che non è cosa per lui. Per fortuna che Jensen è una testa dura, e al 18° minuto si getta su un pallone che vaga fuori dall’area avversaria per poi effettuare uno splendido tiro che supera Illgner ed entra in rete. Uno a zero, i vacanzieri danesi stanno battendo i campioni del mondo. Incredibile ma vero. La Germania è stordita, prova a reagire ma non supera uno straordinario Schmeichel. E quando la partita sta per concludersi, il dio del calcio si ricorda che serve un finale adeguato per una bellissima favola: al 78° minuto Kim Vilfort si getta in avanti, controlla un pallone difficile con il destro superando due difensori e poi, di sinistro, spara in porta un rasoterra preciso che supera Illgner, sbatte sul palo e quindi entra in rete. Due a zero, la gara è finita, e il gol decisivo lo ha segnato il capitano coraggioso, che per tutto il corso del torneo ha fatto avanti e indietro dalla Danimarca alla Svezia, dal letto della figlia ai campi di gioco inseguendo due incredibili miracoli. Quello a cui tiene di più, perché il calcio rimane pur sempre un gioco, non si avvererà: Line muore poche settimane dopo il trionfo di papà e compagni, cancellando la gioia di un giocatore che però riesce, in quella improbabile estate del 1992, a entrare nella storia insieme ai compagni. È il trionfo di una truppa quasi improvvisata, della volontà, dell’abnegazione, è il trionfo della Danimarca mai più arrivata così in alto. Di una squadra che con la sua impresa ricorda a tutto il mondo perché il calcio – questo nostro sport spesso così sporcato da episodi spiacevoli – venga tuttora considerato il più bel gioco del mondo.

(La Danimarca campione d’Europa nel 1992 – foto: uefa.com)

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