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Calcio

Dong Fangzhuo, dalle stelle alle stalle – 21 mag

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Forse non tutti sanno che anche in Cina si gioca a calcio, e da quasi mille anni. È infatti attorno addirittura al 1500 A.C. che si attribuisce l’invenzione, nel Celeste Impero, del “Tsu-chu”, sport che mirava a infilare un pallone di cuoio ripieno di piume e capelli femminili dentro un sostegno mediante l’uso esclusivo dei piedi. Il fatto che poi il Paese, dai tempi della Rivoluzione di Mao, sia rimasto abbastanza chiuso al resto del mondo non ha certo favorito lo sviluppo del calcio moderno, solo recentemente venuto alla ribalta grazie al Guangzhou che ha avuto tra i suoi protagonisti Lippi, Diamanti e Gilardino.

Tuttavia, in un Paese senza una base calcistica solida ma con quasi due miliardi di abitanti, la possibilità che nasca un grande calciatore non è da escludere: questo quello che pensò probabilmente Sir Alex Ferguson, che nel gennaio del 2004 convinse il suo Manchester United a mettere le mani sul giovanissimo talento Dong Fangzhuo, bruciando sul tempo (si dice) Inter e Real Madrid. Si parlò di una mossa commerciale, e certo non è da escludere che fu questo il motivo per cui la trattativa si concretizzò: la Cina era reduce dalla sua prima partecipazione di sempre ai Mondiali, l’entusiasmo nel Paese intorno al calcio era altissimo.

Dong giunse in Premier (dove già giocavano i connazionali Li Tie e Sun Jihai, rispettivamente nell’Everton e nel Manchester City) ma non poteva essere utilizzato da subito: le severe norme sui giocatori extracomunitari in vigore nel Regno Unito facevano si che, in assenza di un permesso di soggiorno impossibile da ottenere vista la sua giovane età arrivasse un passaporto europeo valido. I “Red Devils” lo spedirono dunque al proprio club affiliato in Belgio, l’Anversa: nel giro di un paio d’anni Dong (che ovviamente in Cina diventò improvvisamente una star) avrebbe avuto il passaporto belga e sarebbe stato pronto per giocare agli ordini di Ferguson. In patria Dong era esploso, segnando 20 reti in 14 gare, nello Shangai United, in seconda divisione. L’impressionante media-reti aveva convinto il Dalian Shide a puntare su di lui, e dopo un pugno di gare era arrivata appunto la chiamata europea. In Belgio, al suo primo impatto con il calcio “vero” Dong non fece affatto male: un gol in nove gare nella prima stagione (giocata da febbraio a giugno), 7 in 22 (con 6 reti segnate nelle prime 7 gare, peraltro giocate per la maggior parte partendo dalla panchina) nella seconda, peraltro coincisa con qualche acciacco e numerosi impegni internazionali che ne fiaccavano la forma.

Già, perché nel frattempo era arrivata anche la gloria della Nazionale, segno tangibile di un futuro da predestinato. La terza stagione fu la migliore della sua intera carriera: con l’Anversa finito in seconda serie, Dong siglò la bellezza di 18 reti, vincendo la classifica cannonieri e riportando la squadra in massima serie con prestazioni così convincenti da valergli il ritorno al Manchester United. Non era arrivato il passaporto belga (per via di assurde regole cinesi, se lo avesse ottenuto avrebbe perso il suo) ma la raggiunta dimensione internazionale gli valse il tanto agognato permesso di soggiorno.
Ancora sei mesi con l’Anversa dunque (11 reti in 15 gare, per un totale di 37 reti nelle 71 gare giocate in Belgio) ed ecco il ritorno allo United: dove arriva l’esordio contro il Chelsea ma dove poi tutto finisce rapidamente. Ferguson smette di credere in lui, se mai lo ha fatto davvero: gioca nelle Riserve ma non convince, e in poco meno di un anno la “Chinese goal-machine” diventa quasi un ospite indesiderato, che i Red Devils finiscono poi per piazzare in prestito ancora in Cina, negli stessi Dalian Shide dove il sogno europeo era cominciato. Certo il contratto con lo United scade nel 2010, e siamo nel 2008. È arrivato anche il primo gol in Nazionale, segnato contro la Nuova Zelanda alle Olimpiadi del 2008: se continuasse così, se convincesse, chissà.

E invece niente: forse troppo montato e sopravvalutato prima, forse depresso per un sogno sudato, accarezzato e poi immediatamente sfumato, Dong finisce dentro un incubo, non trovando la via della rete per due intere stagioni. Il contratto scade e non viene rinnovato, e con esso scade anche il prestito al Dalian. Riprova ad entrare in Europa passando dai campionati minori, ma ormai è tutto sfumato: 2 gare con i polacchi del Legia Varsavia, 3 con i portoghesi del Portimonense. Ritrova finalmente il gol, dopo quasi cinque anni, militando negli armeni del Mika, ma è chiaro che se sei passato dal sogno della Premier alla prima divisione armena, forse, non è cosa. Torna in Cina, si accasa agli Hunan Billows, seconda divisione, dove riesce ancora (e ci mancherebbe) a fare la differenza, seppur per poco. Già, perché poi lo vedi, in campo non ha grinta, non ha voglia, ha perso ovviamente entusiasmo e motivazione, prigioniero di se stesso e del suo passato glorioso. Nel frattempo il Manchester United ha ingaggiato il giapponese Shinji Kagawa dal Borussia Dortmund pagandolo 30 milioni di euro: alla presentazione, parlando degli asiatici che lo hanno preceduto con la maglia dei Red Devils, ha definito il coreano Park Ji-Sung “il miglior giocatore asiatico di sempre”. E Dong? “Mi dispiace, non lo conosco”.

Attualmente Dong Fangzhuo gioca nell’Hebei Zhongji, tra le peggiori squadre della seconda serie cinese. Trent’anni compiuti lo scorso 10 aprile, ingrassato e discretamente svogliato, lo sorregge solo il talento, che per quei livelli calcistici è ancora sufficiente. Difficile però riconoscere in quel biondo ossigenato dal fisico sovrappeso e dallo sguardo malinconico il talento che avrebbe dovuto sfondare nel Manchester United. Quasi vergognandosi di lui e del suo fallimento, la Cina cerca oggi di dimenticare quella che doveva essere la sua grande stella.

 

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