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A TU per TU – Intervista esclusiva a Cesare Prandelli: “A Bologna c’è tanta passione. Mio figlio…”

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interlive.it

Questa settimana abbiamo avuto l’onore di intervistare in esclusiva uno degli allenatori più importanti e genuini del calcio italiano, Cesare Prandelli. Con lui abbiamo ripercorso le tappe della sua carriera e ci siamo soffermati anche sul figlio Nicolò, ora preparatore atletico del Bologna.

Salve mister, come sta?

“Insomma, qui stiamo vivendo con dolore e preoccupazione, la situazione non è facile e lo stato d’animo è questo. Ovviamente, paragonato questo periodo alle prime settimane, ora possiamo respirare un pò; l’inizio è stato molto difficile, ora dobbiamo riprenderci”.

Ha scoperto qualche nuova attività in questo periodo?

“Nulla di nuovo! Fortunatamente ho qualche pezzetto di terra qui, vicino a Firenze, quindi quando ho voglia mi dedico a questa attività. Poi, quando c’è stata la chiusura totale, ho comprato 300 piccoli ulivi e li ho piantati: ora passo il tempo con loro e questa cosa mi diverte molto, mi piace il mio lato da contadino”.

Partiamo da una curiosità: Cesare o Claudio?

“Il mio primo nome è Claudio, io però l’ho scoperto solo a 14 anni quando chiesi la carta d’identità. Io sono stato il primo nipote a nascere e mio nonno si chiamava Cesare; in chiesa, il prete chiese il nome del bambino e mio nonno disse Cesare. Mio padre non lo contestò, non ha avuto il coraggio. Quindi sono rimasto così: il primo nome è Claudio ma mi hanno sempre chiamato Cesare”.

Parliamo un pò di lei partendo dal Prandelli calciatore; lei ha vinto alla Juventus, cosa significa vincere con quella squadra e indossare la maglia bianconera?

“Per un ragazzo giovane, arrivare alla Juventus è solo una questione di orgoglio. Quando arrivai a Torino trovai un presidente straordinario, forse il migliore in assoluto della Juventus: Giampiero Boniperti. Lui dal primo giorno ti faceva capire l’importanza di indossare quella maglia, non soltanto in campo ma anche fuori. Per lui la Juventus era ed è uno stile di vita, è in testa aveva solo un obiettivo: vincere. Era un’ossessione. Lì ho fatto sei anni meravigliosi, impossibili dimenticarli”.

E la notte dell’Heysel l’ha dimenticata?

“Come fare, non ci si riesce. Di quella notte ricordo le cose in maniera talmente nitida che non potrò mai dimenticare ciò che ho vissuto. Quella notte fu una tragedia, non solo per i tifosi juventini ma per tutto il calcio”.

Da allenatore, l’esperienza più intensa l’ha vissuta alla Fiorentina: che aveva di speciale quella squadra?

“Quella squadra era nata con l’idea di diventare una grande società, dovevamo stare nei piani alti della classifica e ci riuscimmo. I Della Valle avevano questa idea di poter lottare per i vertici del calcio italiano, e noi ce la facemmo in poco tempo, anche se il progetto richiedeva un pò di tempo in più. Quello che ci accomunava con la società era quel senso di appartenenza: questo è abbastanza facile da recepire, soprattutto per chi vive a Firenze. La Fiorentina, per i fiorentini, è qualcosa di straordinario: vivi il calcio 24 ore su 24 e non sei mai solo. Nel bene e nel male c’è sempre un’identità forte. Avevamo dei ragazzi motivati, volevano sempre migliorarsi ed è per questo che abbiamo fatto cinque anni straordinari”.

Che rapporto c’è con la tifoseria viola?

“Un rapporto speciale, forse anche dovuto a ciò che accadde in quel periodo: dopo il primo anno ci siamo trovati, con gli eventi di Calciopoli, in Serie B. Una sera avevamo la presentazione della squadra ma, prima, avevamo detto ai giocatori che gli insoddisfatti potevano andar via, io sarei comunque rimasto. Da quella mia decisione è nato un rapporto forte con la tifoseria”.

Dopo la Fiorentina poteva andare alla Juventus?

“Ci sono state delle situazioni che erano aperte ma, dopo il mio rinnovo con la Fiorentina, le stesse situazioni si sono chiuse in maniera automatica e non ci ho pensato più. Ero felice di poter rimanere a Firenze”.

E dopo Firenze arrivò la Nazionale: quali sono le differenze più evidenti nell’allenare un club e una Nazionale?

“Penso ci siano differenze abissali: nel club lavori tutti i giorni con la tua squadra, nella Nazionale diventi più un gestore, escluso quando ci sono eventi importanti che ti danno la possibilità di stare di più con la squadra. Però sì, ci sono differenze notevoli: con un club vivi intensamente il rapporto, hai sotto controllo la squadra ogni giorno, mentre con la Nazionale devi tenere duro perchè la cosa è più complicata”.

Cosa si prova ad allenare l’Italia?

“Un senso di appartenenza molto forte, ho provato un senso di responsabilità anche perché la Nazionale ti dà una notorietà che nessun squadra ti può dare: quando andavamo in trasferta ti notavano subito e ti riconoscevano come Ct della Nazionale, e questa cosa mi faceva molto piacere. C’era poi grande coinvolgimento e grande partecipazione nelle iniziative che venivano organizzate, si sentivano tutti parte di un grande popolo”.

Poi arriva il Galatasaray, che esperienza è stata?

“Innanzitutto ti dico che l’esperienza all’estero è molto interessante. La prima, al Galatasaray, è stata un pò strana: quando arrivai, c’era il presidente che mi voleva a tutti i costi e voleva un progetto interessante con nuovi settori giovanili e una competenza in Champions che, fino a quel momento, non aveva. Mi disse: gestisci tutto tu. Sembrava bellissimo messa così no? Talmente bello che poi lui diede le dimissioni perchè alcuni non condividevano il suo progetto; sono arrivate altre persone e mi hanno esonerato. Io ero secondo in classifica e mi hanno cacciato, quindi ti dico: bella esperienza dal punto di vista umano, meno dal punto di vista professionale”.

Poi il Valencia…

“Andai in Spagna con molta difficoltà e tanta diffidenza: quella era una squadra che, nelle prime sette partite, ne persero cinque. La società pensava di avere una squadra che poteva competere per l’Europa, io invece credevo che innanzitutto doveva salvarsi perché non aveva grandi potenzialità per reggere il confronto con le big. Poi mi fecero mille promesse, rimandarono sempre tutto e alla fine non hanno mai fatto nulla. Penso che in una squadra la gestione tecnica deve essere condivisa con l’allenatore, ma soprattutto con persone che sanno far calcio: per questo motivo ho dato le dimissioni, non c’erano i presupposti per continuare”.

Infine l’Al-Nasr…

“Lì la qualità della vita è fantastica, nulla da dire. Dal punto di vista sportivo la qualità si abbassa, c’è poca gente allo stadio. In quella stagione avevamo 25 punti in più rispetto all’annata precedente, eravamo in corsa per due coppe e quarti in campionato, poi successe l’incredibile. Forse questa cosa, così strana, è successa solo a noi: giocavamo una semifinale di Coppa e all’88’ il mio centravanti brasiliano segna un calcio di rigore. La partita sarebbe chiusa, ci saremmo qualificati; peccato che l’arbitro ha tirato fuori il cartellino giallo per il nostro attaccante perché, nel momento del tiro, fece una finta che secondo lui non era valida. Diede quindi punizione contro: mai successo, penso. C’è una clausola della Fifa che ritiene che sia l’arbitro a decidere in queste situazioni: lui non so, ha considerato il tutto come un’offesa. Così finì la storia. Poi in questi campionati, quando perdi una partita, lo sceicco è abituato a prendere subito dei provvedimenti: per tre giorni pensò di mandare via qualche responsabile societario, poi loro hanno tenuto bene l’opposizione e alla fine hanno esonerato me”.

Potesse ritornare indietro, rifarebbe tutte e tre queste esperienze?

“Ti dico la verità: le rifarei tutte e tre, poi devi avere ovviamente le condizioni giuste per poter lavorare. A Valencia, come già detto prima, avevo molte perplessità soprattutto per le aspettative. Il problema è che quando stringi la mano a un presidente per delle promesse che poi non manterrà, a volte ti svegli la notte e te ne vai. La passione per questo lavoro è talmente forte che ti accompagna sempre, in ogni esperienza”.

Ha qualche aneddoto da raccontarci riguardo queste esperienze?

“Te ne dico uno di quando ero in Arabia. I calciatori, tra il primo e il secondo tempo, avevano la preghiera da fare. Ritornavamo negli spogliatoi e loro iniziavano a pregare: le prime volte ero un pò a disagio, sempre però nutrendo rispetto nei loro confronti; poi però mi sono abituato, ho apprezzato il tutto perché in questi momenti avevi il tempo di pensare e ragionare. Alla fine penso sia stata un’esperienza importante, sia dal punto di vista umano, sia da quello professionale”.

In casa ha un altro sportivo, suo figlio Nicolò: cosa pensa di lui?

“Io l’ho avuto in Nazionale e al Parma, e penso che – nonostante sia mio figlio – sia uno dei preparatori più bravi e preparati. Quando ho avuto la necessità l’ho preso per le sue capacità professionali; adesso al Bologna è molto contento, è felice del percorso e del rapporto che ha con la società e con Sinisa. Io ho un bellissimo rapporto con mio figlio, lui è un grande lavoratore e si vede sempre. Forse lavora un pò troppo però va bene così: basta che sia felice”. 

Lo segue spesso a Bologna?

“Sì, sono venuto al Dall’Ara molte volte. Mi piace molto Bologna, amo venire a trovare lì i miei nipoti e tutta la famiglia; poi quando c’è l’occasione corro subito allo stadio”.

Vede similitudini tra la tifoseria del Bologna e quella della sua Fiorentina?

“Assolutamente sì. Quando c’è una grande passione e la respiri in città, la gente che lavora per quella maglia si sente apprezzata e interiormente responsabile. Si appartiene ha un grande valore; Bologna, da questo punto di vista, è molto unità. La passione si respira nell’aria e può fare solo bene”.

Ha un obiettivo per il futuro?

“Ora, ovviamente, il calcio è l’ultimo dei miei pensieri. Poi è chiaro che quando ritornerà la normalità avrò di nuovo voglia di pensare al calcio, di documentarmi e di riavere una squadra: non so se in Italia oppure all’estero, ma a questo ci penseremo in futuro”.

Grazie mister, è stato un onore.

“Grazie a lei, un abbraccio”.

 

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