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Amarcord – Le due avventure di Gigi Radice

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Gigi Radice


«Due volte nella polvere,/ Due volte sull’altar». Così Manzoni ne Il cinque maggio evocava le ascese e le cadute di Napoleone. I momenti positivi e quelli negativi[1] sono due lati della stessa medaglia e possono esistere solo in relazione reciproca. È difficile trovare nello sport a carriere, comprese le migliori, in cui essi non siano coesistiti, si pensi nel calcio alle note vicende di Maradona o nel basket a Michael Jordan con le voci, verosimilmente malelingue, circolate al momento del suo primo ritiro temporaneo quando si dedicò al baseball, passione del padre assassinato due mesi prima, secondo cui quella pausa altro non fu che una copertura per una sospensione inflittagli dalla NBA per problemi di scommesse. Causati da circostanze reali o da illazioni, essi sono stati momenti in cui la grandezza indiscutibile e difficilmente riducibile di alcune stelle ha ricevuto dei colpi ai reni. L’unico sportivo che probabilmente non ha mai subito momenti di arresto è stato il più grande di tutti i tempi, perlomeno a mio avviso: Muhammad Ali. Egli, umano tra gli umani, ebbe momenti di grande arresto come quello successivo alla revoca della licenza da pugile a seguito del rifiuto di prendere parte della guerra in Vietnam, ma la sua grandezza fu quella di trasformare questi avvenimenti in un punto di forza e di positività grazie alla sua coscienza sociopolitica, ottenendo risultati che andarono oltre allo sport.
I tre esempi citati sono macroscopici, legati a talenti fuori dall’ordinario e all’incontro tra la disciplina praticata e le vicende personali: questa discontinuità di risultati, però, è ancora più riscontrabile in personaggi minori, non per questo secondari, dello sport e totalmente ascrivibili al campo di gioco. Un esempio rossoblù è sicuramente Gigi Radice.

Napoleone due volte arrivò a capo dell’Impero e due volte cadde, a Lipsia e a Waterloo, mentre Radice, allenatore che ben si adatta alla figura di un condottiero, con il Bologna ebbe solo due grandi picchi, uno verso l’alto e uno verso il basso. Egli allenò la squadra felsinea in due occasioni, sempre per una sola stagione, a distanza di un decennio. Tra il 1975 e il 1980 Radice guidò il Torino in quella che probabilmente fu l’esperienza più importante vissuta da lui in panchina e con cui vinse nel 1975-1976 l’ultimo scudetto della società granata. Terminata l’esperienza nel capoluogo piemontese con un esonero, nel 1980 egli si accasò all’ombra delle Due Torri accettando consapevolmente di affrontare una stagione complessa segnata, come visto nell’articolo su Enéas, dalla penalizzazione di cinque punti in classifica dovuta allo scandalo Totonero. La squadra con cui si trovò a lavorare Radice era profondamente diversa rispetto a quella che ottenne il settimo posto l’anno precedente: in particolar modo a cambiare fu l’attacco con l’aggiunta di Salvatore Garritano, prelevato dall’Atalanta dove in due stagioni realizzò otto reti in trentacinque presenze, del già citato Enéas e di Giuliano Fiorini, autore l’anno precedente di un’ottima stagione in Serie C1 con il Piacenza e già rossoblù in due fugaci apparizioni nel 1974-1975 e nel 1977-1978. Il reparto offensivo non era dei più prolifici, nessuno dei tre sopra elencati ebbe mai una stagione da dieci reti in Serie A, e quell’anno il miglior marcatore fu Fiorini con sette gol, ciò nonostante Radice fece giocare la squadra secondo i dettami ideologici del suo calcio. L’approccio dell’allenatore era quello di pressare a tutto campo e sposò la filosofia, in controtendenza con quanto si vedeva all’epoca, del fare un gol in più degli avversari. Questo gioco arrembante e allo stesso tempo equilibrato riuscì a portare il Bologna a essere con trentadue reti il quinto miglior attacco del campionato e, rapportando il dato con i ventisette gol subiti, la quinta miglior squadra per differenza reti. Una stagione che prima di partire si preannunciava come molto difficile fu un trionfo e i rossoblù nonostante le difficoltà si classificarono nuovamente settimi in classifica, ma per dare il senso del lavoro svolto da Radice e dai giocatori è necessario sottolineare come senza la penalizzazione la squadra sarebbe arrivata quinta a soli due punti dalla qualificazione per la Coppa Uefa. Gigi Radice, il Sergente di ferro, riuscì nell’impresa di fare grande la stagione 1980-1981 ed entrò nel cuore dei tifosi rossoblù nonostante la sua permanenza durò solamente quell’annata: ad aspettarlo, infatti, c’era il Milan, squadra con cui da giocatore vinse tre campionati, una Coppa dei Campioni e una Coppa Latina e che avrebbe potuto rappresentare per lui una grande svolta nella carriera da allenatore. Quella del 1981-1982 non fu, però, una buona stagione né per i rossoblù, né per il suo ex allenatore: il Bologna retrocesse, così come il Milan da cui Radice fu esonerato alla sedicesima giornata di campionato.
Le strade della società felsinea e del grande condottiero della stagione 1980-1981 si incontrarono nuovamente nel 1990-1991, ma gli esiti non furono gli stessi della prima volta. Radice venne chiamato alla settima giornata per sostituire Franco Scoglio e risollevare le sorti della squadra ancorata all’ultimo posto dopo cinque sconfitte nelle prime sei partite. L’effetto sortito dal cambio non fu quello sperato dalla società e, nonostante un inizio promettente, il Bologna non riuscì mai a rialzarsi e a fine stagione la retrocessione fu inevitabile. Negli anni successivi la situazione della società continuò a peggiorare con la retrocessione in Serie C1 nel 1992-1993 dove rimase fino alla stagione 1994-1995 quando sotto la guida di Renzo Ulivieri ricominciò la risalita verso la A. Il Bologna del 1990-1991 aveva in rosa giocatori di buon livello come Herbert Wass, Kubilay Turkyilmaz, miglior marcatore quell’anno con nove reti, il talento discontinuo Lajos Detari e Antonio Cabrini, giunto ormai alla sua ultima stagione. L’apporto di Radice alla squadra non fu, però, totalmente negativo: anche se i risultati in campionato non arrivarono bisogna sottolineare come in Coppa Italia e in Coppa Uefa, entrambe le competizioni terminate ai quarti, le prestazioni furono buone. Nel primo caso i felsinei vennero eliminati dal Napoli che negli ultimi venti minuti della partita di ritorno realizzò tre reti ribaltando così il 2-0 complessivo accumulato fino a quel momento, le marcature furono di Galvani e Mariani, mentre nel secondo fu fatale lo Sporting Lisbona che vinse per 2-0 al ritorno dopo l’1-1 ottenuto all’andata con il gol di Turkyilmaz.
Gigi Radice con il Bologna fu una volta sull’altar e una volta nella polvere, ma questo è bastato per entrare di diritto nella storia rossoblù.

 

[1] La scelta di non utilizzare un termine maggiormente diffuso come “fallimenti” è voluta ed è legata al discorso accennato in precedenti articoli, come quelli sulla storia ai Mondiali del Marocco, sull’erronea concezione della dicotomia successo-fallimento che permea la nostra società arrivando a conseguenze estreme sia nello sport, con i noti sotterfugi spesso utilizzati per arrivare al successo a tutti i costi, sia nella quotidianità in cui gli esempi, anche recenti, si sprecano e di cui sono piene le aule delle nostre università e i posti di lavoro.

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