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Una Virtus che cresce, come squadra e nei singoli. L’editoriale del lunedì

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foto Virtus Pallacanestro/Giulia Pesino


Il derby è passato, per la Virtus Segafredo nel modo pressoché auspicabile, per la Fortitudo assai meno, tanto che stanno crescendo malumori non troppo diversi da quelli sorti dopo quello del Natale scorso. Dei problemi di casa Fortitudo 1000 Cuori-Basket City si è occupato in un precedente editoriale, di quelli virtussini è presto detto. La squadra cresce, anche abbastanza armonicamente, considerato il periodo assolutamente eccezionale in cui stiamo vivendo. Al di là della solita retorica sul fatto che prendendo lauti stipendi i giocatori dovrebbero essere come robot, indifferenti a tutto ciò che accade fuori dal palasport, a coloro che attualmente si mostrano scontenti per questo e quell’altro difetto organico nel roster, nel gioco o cos’altro ancora, non si può che rispondere che l’eccellenza assoluta priva di difetti nella sostanza non esiste. Se si vuole invece cercare il pelo nell’uovo, la maggior debolezza che ancora emerge nell’ordito intessuto da Ronci e Djordjevic riguarda adesso il settore dei lunghi, che fatica maggiormente, rispetto alle guardie, a trovare continuità di rendimento. Difficile conoscerne le cause e non è che fin qui si possano registrare particolari debacle se non in pochissimi casi, tuttavia anche ieri si è assistito ad errori ripetuti in fase realizzativa o a momenti di afasia difensiva che progredendo sul piano della difficoltà tecnica degli impegni potrebbero rivelarsi dolorosi. Non credo sia una questione tecnica, perché la qualità dei giocatori è nota e incontrovertibile; si tratta forse di problemi di concentrazione, oppure c’è chi patisce maggiormente i buchi di una preparazione a spizzichi e bocconi come quella della scorsa estate?

Detto ciò, insisterei con lo sfatare il mito della insufficiente presenza di tiratori dalla distanza della squadra. Che di certo non ha, tra i suoi, un vero specialista, ma ieri, ad esempio, la partita si è risolta con le tre triple tre ad inizio ultimo quarto che hanno definitivamente spezzato le gambe ai biancoblu, ed il gioco di Djordjevic è impostato (fortunatamente, direi, per lo spettacolo che offre) sulla ricerca di soluzioni che non si riducono all’ormai solito pick’n’roll con penetra-e-scarica forse efficientissimo ma alla lunga noiosissimo che affligge tante partite d’oggidì: non contesto il fatto che il basket moderno sfrutti a dovere le capacità balistiche dei sempre più numerosi grandi tiratori che risultano vincenti sul piano del risultato. Però, quanto sa essere più divertente certi passaggi, certi improvvisi ribaltamenti, soprattutto se conditi degli assist serviti da geni come Santeodosic, Markovic e Hunter? Alla loro scuola sta crescendo un giovane che è ormai una realtà, quell’Alessandro Pajola sempre più Pajolic, per come pare assorbire il verbo, se non addirittura il sangue, della trazione serba di questa Virtus, a partire dal coach. È arrivato il suo turno anche in Nazionale; ci auguriamo solo che, come ha peraltro fin qui dimostrato di non fare, non cominci a sentirsi un po’ già arrivato: per lui si possono prevedere grandi soddisfazioni, in prospettiva, osservando come sia cresciuto negli ultimi due anni. L’importante è che non venga colto da quell’”italianite” che ha fermato la maturazione di tanti grandi promesse nostrane, alcune delle quali hanno avuto la fortuna di trovare all’estero una strada alternativa per la propria formazione di vero campione, non come altri che purtroppo poco alla volta hanno visto spegnere pressoché totalmente le proprie velleità, soffocate, in casa nostra, chi da pigrizia, chi da supponenza, chi da eccesso di elogi prematuri. Credo anche però che la sua attuale collocazione nella morsa del tridente serbo possa confermarsi come la situazione per lui ideale.   

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