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La leggenda di “El Trinche” Carlovich, “il Maradona che non c’era” – 31 lug

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“Carlovich fu uno di quei ragazzi di quartiere che, da quando sono nati, hanno come unico giocattolo la palla. Tra lui e la palla c’era un rapporto molto forte. La tecnica che aveva lo rendeva un giocatore completamente differente. Era impressionante vederlo accarezzare la palla, giocare, dribblare. Certamente durante la sua carriera non trovò riserve fisiche che si abbinassero a tutte le qualità tecniche che aveva. Inoltre, sfortunatamente, nemmeno ebbe qualcuno che lo guidasse o comprendesse . E’ un peccato, perché Carlovich era destinato ad essere uno dei giocatori più importanti del calcio argentino. Mi ricordo che lo vidi giocare un una selezione di Rosario contro la squadra argentina e fu il miglior uomo in campo. E dire che, tra i molti rivali, c’erano mostri come Miguel Brindisi. Vederlo era una delizia. Dopo non so cosa gli successe. Forse il calcio professionale lo annoiava. A lui piaceva divertirsi e non si sentiva a suo agio con nessun compromesso.”
(César Luis Menotti, CT dell’Argentina Campione del Mondo nel 1978) 

Nel calcio esiste la storia ed esiste il mito. La storia è scritta e ben documentata: parla di campioni, di risultati, cifre, gol e trofei. La leggenda invece vive di racconti, di “si dice”, di “giuro che”. Per la storia, i calciatori migliori di sempre sono stati – secondo i gusti – Pelé, Maradona, Di Stefano, Cruijff, Messi. Ed è la storia a contare, sono gli almanacchi, le coppe alzate e le reti documentate. È anche giusto così, in fondo, che sennò ognuno potrebbe raccontare una storia incredibile e pretendere che tutto il mondo ci creda. Ma in fondo, il calcio, cosa sarebbe senza il mito? Quello che racconta di campioni magnifici e sconosciuti, autentici fuoriclasse che per un motivo qualsiasi non hanno scritto la storia ma che hanno tuttavia contribuito, con la propria magia, alla diffusione, alla passione, per quello sport nato un secolo e mezzo fa nella piovosa Inghilterra. Così, se ci atteniamo solo a fatti certi e documentati, si può discutere ore e ore su Pelé e Maradona, su chi tra loro fosse migliore. Ma se si smette di guardare per un momento i freddi numeri, se si dà ascolto al mito, ecco allora che tutto cambia. E il miglior giocatore del mondo è un nome che negli almanacchi non trova posto, ma di cui un intero Paese narra la leggenda: “El Trinche”, Tomas Felipe Carlovich.

Il mito incrocia la storia un pomeriggio di aprile del 1974: la Nazionale Argentina, prossima alla partenza per la Germania dove si disputerà la decima edizione della Coppa del Mondo, passa da Rosario e pensa bene di affrontare una selezione locale in uno di quei classici match di riscaldamento dove si presume che il risultato sarà scontato e tutti si divertiranno meno che i locali.


Invece si diverte solo Carlovich, unico rappresentante della piccola e povera terza squadra cittadina, il Central: nell’abituale posizione di “volante”, schierato cioè davanti alla difesa, si esibisce in un repertorio vastissimo e inarrestabile di finte, tunnel, dribbling, lanci millimetrici e contrasti duri e puliti. I grandi campioni argentini ammattiscono di fronte a quello sconosciuto, insuperabile in difesa e inarrestabile quando decide di avanzare palla al piede. Il primo tempo termina 3 a 0 per la selezione di Rosario, e leggenda vuole che “El Polaco” Vladislao Cap, CT della “Seleccìon”, preghi il tecnico rivale per escludere nel secondo tempo quell’ira di Dio che è “El Trinche”. Non si sa se è vero, ma è vero che nel secondo tempo Carlovich rimane in panchina, l’Argentina segna. esce comunque sconfitta per 3 a 1 ma si evita almeno una crisi di nervi. Forse il fatto che la preghiera di Cap sia solo leggenda lo conferma il fatto che il CT decide di portare ai Mondiali due giocatori di Rosario, gli attaccanti Mario Kempes e Aldo Poy, ma chissà perché finisce per ignorare proprio Carlovich, che in quel momento ha conosciuto la storia ufficiale e in quel momento la abbandona, tornando nel mito, nelle leggende di periferia.

“Non capisco perché non arrivò a giocare in nessun club importante. Aveva delle qualità tecniche straordinarie. Era abbastanza lento ma molto abile. E ‘guapo’. Ancora non ho visto un altro “cinque” come lui. In quella partita dell’Argentina contro la selezione di Rosario, in cui io giocai per la Nazionale, Carlovich ci sbaragliò. Non potevamo fermare né lui né i suoi compagni. Perdemmo 3 a 1 solo perché tirarono fuori il Trinche al quindicesimo del secondo tempo. Altrimenti…” 
(Aldo Poy, nazionale argentino nel 1974) 

Difficile dire che giocatore sia stato, Tomás Felipe Carlovich detto “El Trinche”. Per José Pekerman, futuro CT dell’Argentina che per anni non si perse una sua sola gara, era semplicemente il miglior centrocampista mai visto. Per Diego Maradona fu il più grande giocatore della storia, superiore a lui, a Pelé e a tutti gli altri. Eppure di lui su Internet non troverete niente, non un solo video che ne celebri le abilità come adesso accade per giocatori sicuramente meno dotati. Perché Carlovich non ha mai cercato la gloria, il successo, i soldi e i riflettori, accontentandosi di giocare solo per il gusto di farlo. Non è stato Maradona, ma perché semplicemente non ha voluto esserlo, e a suo modo è diventato grande quanto “El Diez”, o forse persino di più. Perché se è vero che questo centromediano non ha giocato che un pugno di partite nella massima serie e si è invece districato per un’intera carriera tra seconda e terza divisione senza mai lasciare l’amata Rosario, è vero anche che risulta difficile che un intero Paese possa essersi inventato una leggenda.
Leggenda che nasce il 20 aprile del 1949: l’Argentina è in quel periodo per molti la terra delle opportunità e attira grandi ondate di immigrati provenienti principalmente dall’Italia e dalla Spagna. 

Rosario è culla di grandi calciatori come Messi, Di Maria, Icardi, di tecnici competenti come Marcelo Bielsa, César Menotti e “El Tata” Gerardo Martino, ma anche di Ernesto “Che” Guevara, il rivoluzionario per eccellenza.
In questo contesto nasce  Tomás, uno dei sette figli di un immigrato croato che fin da subito, come nelle migliori favole, si innamora del pallone, unico compagno di giochi nelle povere e polverose strade del “barrio” dove cresce. Impara a giocare nei vicoli, Carlovich, e la cosa sarà evidente anche quando raggiungerà il professionismo: tecnicamente è perfetto, ammaestra la palla come vuole e la spedisce dove vuole, e in più si forma un carattere umile ma orgoglioso, che non abbassa mai la testa e che non conosce compromessi.
 
Nel calcio che conta arriva relativamente tardi, ed è giusto un assaggio: qualche gara con il Rosario Central, esperienze con Flandria e Independiente Rivadavia e poi l’approdo al club che egli definisce “la miglior cosa mai successa nella vita”, il modestissimo Central Cordoba che vivacchia in seconda serie. Non lo porta al successo, perché il suo modo di giocare è tutto per il pubblico e mai per il risultato; tuttavia la sua abilità è tale che in ogni gara interna lo stadio “Gabino Sosa”, intitolato a un altro eroe calcistico di Rosario degli anni ’20, si colma di persone che vengono solo per vedere “El Trinche” all’opera. E lui non delude mai, diventando celebre per il “doppio tunnel” con cui è solito infilare un solo avversario nello spazio di pochi attimi e – si dice – su espressa richiesta dei tifosi. Quando i rivali sono asserragliati in difesa, non è raro vederlo fermarsi e sedersi sul pallone, in attesa di trovare la giocata giusta per infilare la porta. Non è scherno, né senso di superiorità, perché Carlovich è anzi giocatore di umiltà eccezionale. “Solo un modo per riposare”, dirà, e c’è da credergli dato che è proprio per la sua allergia alle sveglie mattutine e ai rigidi allenamenti che la vita di un professionista richiede che spenderà l’intera carriera nelle vicinanze di casa sua, non allontanandosi mai nonostante i mezzi tecnici non gli mancassero. Ma lui preferisce così, giocare per divertirsi e poi la sera ritrovarsi con gli amici di sempre al bar, passare i pomeriggi a pescare o a parlare di calcio con l’amico di sempre Vasco Artola, colui che lo ha scoperto e lanciato.
Nel 1974 tutto il Paese parla di lui e di come ha ridicolizzato l’Argentina che si prepara a disputare un deludente Mondiale in Germania. Finisce sui giornali che ci regalano le poche foto che si hanno di lui al tempo, poi torna nell’oblio: un’altra stagione nel Rosario Central e una nel Colòn de Santa Fe, dove viene bloccato da numerosi infortuni e da un dolore all’anca che non gli dà pace. Una stagione ottima – si dice – nel minuscolo Deportivo Maipù. Tutto molto bello, ma quasi 1000 km di distanza da Rosario, un’enormità per uno che vuole tornare ogni fine settimana a casa e che per farlo una volta si fa espellere volontariamente al termine del primo tempo di una gara: avesse giocato anche il secondo avrebbe perso il treno, c’è da capirlo. Torna così a Rosario, ancora al Central Cordoba, dove conclude la carriera idolatrato dai tifosi locali che ancora possono dirti, se glielo chiedi, che loro hanno visto giocare Redondo, Messi, Maradona, ma il più grande di tutti è senza dubbio lui, “El Trinche”. Che vive ancora nel “Barrio 7 de Septiembre” dove è cresciuto, e qualche anno fa ha dovuto subire un intervento all’anca per l’osteoporosi che gli impedisce adesso di far vedere quello di cui era capace: disponendo solo di una modesta pensione sociale, è stato aiutato nell’operazione da tifosi, amici, compaesani e giornalisti.
E oggi? Tomás Felipe Carlovich, colui che non volle essere Maradona, fa le stesse cose di sempre: pesca, gioca a carte, sta con gli amici di sempre del quartiere e allena con – si dice – ottimi risultati una misconosciuta squadra locale. Se interrogato ridimensiona di molto il suo mito, dice che molte cose che si dicono su di lui erano vere ma molte altre sono state ingigantite, come in ogni leggenda che sopravvive solo grazie al racconto orale. Così, chissà se è vero che una volta scartò un’intera squadra, o che venisse pagato per ogni tunnel eseguito con successo e per questo fosse il più ricco del club. Chissà se è vero che una volta fu espulso ma il pubblico minacciò un casino tale che l’arbitro ci ripensò e lo fece continuare a giocare. E chissà se è vero che rifiutò offerte persino dalla ricca America, che di uno come lui avrebbe certamente saputo far buon uso, per non allontanarsi da casa sua. Quello che rimane, quello che è certo, è il suo mito: talmente fondato che persino Maradona, quando nel finale di carriera venne a giocare a Rosario, a un giornalista che lo chiamava “il più grande di sempre” rispose che no, il più grande di sempre aveva sì giocato a Rosario, ma molti anni prima, e il suo nome era Tomás Carlovich.

Che un pomeriggio lasciò la leggenda metropolitana per entrare nella cronaca, umiliando praticamente da solo la Nazionale Argentina. Di quel fatto si ricordò Cesàr Menotti, CT dell’Argentina che si preparava a ospitare (e vincere) i Mondiali del 1978: a corto di leader, vista la defezione del suo pupillo Jorge Carrascosa, mandò a chiamare Carlovich, memore di quell’unica, grande, partita. “Vieni a Buenos Aires, facciamo quattro chiacchiere e un provino e magari fai i Mondiali con noi”, il senso. Si dice che “El Trinche” ci pensò su, si dice anzi che partì per la capitale. Ma poi – si dice – fermatosi lungo la strada a un fiume per pescare, vide che le trote erano abbondanti e decise di rimanere lì. Ché in fondo a lui per giocare a calcio divertendosi bastava una squadra, ma mica importava quale. E vero o no che sia quest’ultimo racconto, è bello pensare che sia andata davvero così. Del resto, per chi non ha voluto essere Maradona, è comprensibile che un bel fiume pieno di pesci possa essere preferito a un Mondiale da protagonista.

“A chi mi domanda perché non sono arrivato chiedo: cosa significa arrivare?
Io volevo solo giocare a pallone e stare con le persone che amo, e loro vivono tutte qui, a Rosario.”

Parola di “El Trinche”. Quello che non fu Maradona, ma – si dice – molto di più.

 

Editing: Eleonora Baldelli
Fonti: Wikipedia (ES), Julian Ross, fcarbatax 
Ringrazio Ilaria per aver tradotto le citazioni 

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