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Il Metodo Vincente #5: Antifonia in salsa rossoblu

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Precisamente, però, chi era Arpad Weisz?

Ungherese di origine ebrea, Weisz aveva avuto una buona carriera da giocatore, vantando anche alcune presenze nella nazionale magiara. Durante un’amichevole contro l’Italia venne notato dall’Alessandria, che lo fece sbarcare nella Penisola. Rimarrà appena una stagione nella città piemontese, prima di passare all’Inter, ove un infortunio lo costrinse a sospendere la propria carriera di calciatore per iniziare quella da tecnico. Per affinare le proprie conoscenze calcistiche, però, il giovane allenatore ungherese decise di trasferirsi per un anno in Uruguay, una delle storiche patrie del calcio in Sudamerica, e a giovarne fu la sua capacità di comprendere il gioco. Tornato in Italia, riprese quasi subito ad allenare partendo proprio dall’Inter, allora denominata Ambrosiana, con la quale riuscì a conquistare lo scudetto prima che la Juventus cominciasse a farla da padrone. Nel frattempo, proseguì il proprio percorso facendo da coach al Bari e al Novara, prima di giungere, infine, ai piedi del colle di San Luca nel 1935.

Nella duplice veste di giornalista e allenatore, Vittorio Pozzo aveva avuto modo di studiare il gioco proposto da Weisz, un miscuglio tra la cultura calcistica dell’Ungheria, preponderante, all’epoca, nel calcio italiano, e quella, più innovativa, del Sudamerica. Una base tattica similare a quella già adottata dal modulo di Pozzo: due difensori, un centromediano coadiuvato da due mastini, e cinque punte. Con una sostanziale differenza, però. Se nella tattica del selezionatore torinese la squadra era sostanzialmente suddivisa in due blocchi, uno offensivo e uno difensivo, da cinque uomini ciascuno, in quella di Arpad i giocatori erano deputati a giocare in ambo le fasi. Così, poteva capitare, seppur di rado, di vedere la storica bandiera del Bologna Angelo Schiavio, detto Anzlèn, difendere dietro la linea del pallone, ed allo stesso tempo Dino Fiorini, uno dei due difensori, spingere in proiezione offensiva.

Due giocatori nominati non a caso: bolognesi doc e veri e propri simboli della squadra, pur con una concreta differenza di età. Schiavio, infatti, si apprestava al termine di una carriera culminata con il gol nella finale mondiale del 1934, mentre Fiorini si affacciava da titolare in prima squadra dopo una lunga gavetta alle spalle di Eraldo Monzeglio. Il quale, dopo una spietata corte, lasciò Bologna nell’estate del 1935 per raggiungere Roma, dove un caro amico, conosciuto durante i Mondiali italiani, gli assicurò un doppio stipendio: quello da calciatore con la maglia della lupa capitolina, e quello da allenatore personale di tennis ed altre discipline ginniche per i propri figli. Con il secondo che, peraltro, si vocifera superasse, per entità, il primo. D’altronde, se ti chiami Benito Mussolini, certe spese, per avere il meglio del meglio in circolazione, puoi permettertele…

La partenza verso altri lidi di Monzeglio, dunque, permise a Weisz di affidare la maglia numero 2 al giovane terzino di San Giorgio di Piano, peraltro il giocatore perfetto per il sistema di gioco dell’allenatore: potenzialmente può correre i 100 metri piani in 11 secondi, ma si limita a percorrerli in uno/due secondi in più. Non perché sia uno scansafatiche, anzi… Tiene lo stesso ritmo di continuo, per 90 minuti, in 30 partite di campionato. Un valore aggiunto, e i risultati, poco tempo dopo, lo confermeranno.

Come già detto, Pozzo ebbe modo di visualizzare a lungo gli schemi di Weisz, ritenendoli però poco consoni allo stile di gioco storicamente attuato con l’Italia. Non è un caso, ma nel novero dei convocati per le due partite conclusive della Coppa Internazionale, contro Cecoslovacchia e Ungheria, non verrà selezionato alcun giocatore bolognese, nonostante una partenza al fulmicotone per i felsinei, capaci di vincere otto delle prime nove partite. Nemmeno quel panzer, o sarebbe meglio dire marcantonio, data l’italianizzazione imposta dal regime che aveva già trasformato il Bologna da Football Club a Associazione Giuoco del Calcio, di Schiavio, fuori dal giro della Nazionale dopo la vittoria iridata. Una vera e propria antifonia caratterizzò il percorso professionale dei due tecnici: mai, nella mente di Pozzo, un difensore avrebbe potuto lasciare la propria posizione di competenza, così come Weisz non avrebbe accettato un atteggiamento passivo degli attaccanti in fase di pressione sugli avversari.

Sia chiaro, comunque, che tra i due personaggi non mancava un rapporto di stima reciproca: pur nelle loro differenze dal punto di vista tattico, Pozzo e Weisz stimavano reciprocamente il lavoro altrui, e adottarono soluzioni dell’omologo compatibilmente con la propria mentalità di gioco. È risaputo, non a caso, che il cosiddetto allineamento dei cinque terzini, principio della fase difensiva dell’ungherese, fu sovente utilizzato anche dal tecnico torinese.

I risultati, comuqnue, daranno ragione ad entrambi: Pozzo, alla guida dell’Italia, vincerà la sua seconda Coppa Internazionale, il Bologna, trascinata dai già citati Schiavio e Fiorini, nonché dagli oriundi uruguaiani Sansone, Fedullo ed Andreolo (quest’ultimo fortemente richiesto da Weisz), tornerà a fregiarsi dello scudetto sette anni dopo l’ultimo successo, battendo a domicilio la Triestina nell’ultima e decisiva gara di campionato.

Per un attimo, Pozzo tornò a bloccarsi, con gli occhi persi nel vuoto. Le Olimpiadi di Berlino, appuntamento dell’estate 1936, erano prossime ad iniziare. Ma da quel momento in poi, nulla sarebbe più stato lo stesso.

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