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A TU per TU – Martina Benedetti: “Dalle ceneri si rinasce. Siamo competenti, non eroi; lo stress…”

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Stiamo vivendo un anno particolare. Maledetto. Il Covid-19 sta mettendo a dura prova un mondo intero che, quest’anno, tutto si aspettava tranne che combattere una vera e propria guerra. E’ questo il termine esatto: guerra. Quella che stiamo combattendo tutti, quella che vede protagonisti principali medici, infermieri e operatori sanitari. In prima fila, lavorano in ospedali, cliniche, case di riposo. Sono costretti ad asfissianti turni di lavoro, tra terapie intensive e stanze di ricovero. Non possono mollare. Tra loro c’è Martina Benedetti, 28 anni, infermiera dell’ospedale di Marina di Massa, in Toscana. Martina, per chi avesse la memoria corta, è l’infermiera che – a marzo scorso -, è diventata celebre per aver pubblicato un selfie. Non un selfie qualsiasi: aveva appena finito un turno, era esausta e aveva il volto provato dalla mascherina, indispensabile per chi lavora in ospedale. Ma non solo per loro. Questa dura battaglia ancora non è finita, l’uscita dal tunnel non è immediata e – per questo motivo -, la concentrazione deve essere ancora al massimo.

Come ci riesci?

“Io lavoro in terapia intensiva e il nostro lavoro, a prescindere dalla pandemia, è sempre molto delicato perché hai a che fare con pazienti critici. L’assistenza intensiva comporta sempre alti livelli di concentrazione, siamo abituati a lavorare sotto stress. Con il virus tutto si è complicato, perché sono arrivati in blocco tantissimi pazienti e abbiamo dovuto fronteggiare un virus sconosciuto. Nei mesi dell’emergenza ci siamo confrontati con un sistema sanitario che aveva una bassa tenuta; da maggio in poi abbiamo avuto una relativa tranquillità ed è arrivato il momento dell’elaborazione, quando lo stress post traumatico dell’operatore viene fuori. Lo stress si riversa, è drammatico: spesso è più difficile affrontare il dopo che durante. Iniziare adesso con una seconda ondata non ci voleva, anche perché molti operatori sono ancora sotto stress. Noi cerchiamo di tenere sempre alta l’asticella, ma non è facile. In questo momento la sanità ha bisogno di un potenziamento del personale: il nostro benessere psico-fisico è importante”.

Come si convive con questo stress?

“Devi affrontarlo. Quando ne ho avuto bisogno mi sono rivolta a professionisti, consiglio a tutti di farlo in questi casi. Non per forza tramite farmaci, ma dei percorsi interiori e delle tecniche – come la mindfulness -, possono essere di grande aiuto. A me hanno aiutato. La mindfulness è la meditazione sulla consapevolezza: prendere atto di ciò che ti è successo, elaborare il tutto. Mi ha aiutato molto la scrittura, attraverso la comunicazione ho poi cercato di sensibilizzare altre persone. Tutto questo mi ha allontanato dallo stress”.

Sei diventata famosa sul web per quel selfie. Ti vedevano come un eroe, tu come ti vedevi?

“Inizialmente la foto non doveva essere pubblicata, l’ho mandata a mia madre che non vedevo da qualche settimana. Poi è scattato in me qualcosa, dopo quella notte: leggevo tante cose in giro sulla sottovalutazione del virus, persone che si assembravano. Ho dunque pubblicato la foto con un lungo post che non pensavo avrebbe fatto il giro del mondo: non me lo sarei mai aspettato. Io non mi sono mai sentita un eroe. Noi non siamo eroi, siamo solo professionisti: non abbiamo i superpoteri, abbiamo le competenze”.

Di vite ne state salvando, eppure la parole eroe non ti piace.

“Nel libro scritto con Anna Vagli (“Non siamo pronti: lettere digitali dal fronte Covid”) racconto tutta l’esperienza del virus, un capitolo si chiama “non chiamateci eroi”. Tante persone ci hanno definito così mosse dalle nostre testimonianze e dal lavoro svolto; la parola eroe, in alcuni momenti, è stata una sorta di scappatoia per alleggerire le coscienze da alcune responsabilità verso di noi. Dire “è morto da eroe” suona meglio di “è morto sul lavoro”: tanti medici e infermieri sono morti sul lavoro perché non avevano i giusti dispositivi. Per questo non ci piace la parole “eroe”: volevamo solo tutele che all’inizio non abbiamo avuto per impreparazione del sistema. Cito una frase del mio libro: “quello che da molti è chiamato eroismo per la maggior parte di noi significa semplicemente fare il proprio lavoro. Se vogliamo utilizzare quindi questo termine io direi: eroi da sempre, ma soltanto adesso il mondo se n’è accorto”. Così forse suona meglio”.

Dopo l’emergenza di primavera ora c’è quella di autunno. Prima il virus era sconosciuto, ora no. Oltre questo, cosa cambia tra i due periodi?

“Dal punto di vista clinico ci siamo evoluti, sono usciti diversi studi, siamo più avanti rispetto a marzo scorso; non dimentichiamoci però dall’alta contagiosità di questo virus e della tenuta del nostro sistema sanitario di fronte all’impennata di nuovi casi. Non siamo più bravi, non possiamo stare sereni: bisogna sempre stare in allerta. I nostri posti in terapia intensiva hanno un limite: è questo il grande problema. Bisogna potenziare l’assistenza territoriale e domiciliare, sarebbe una grande svolta”. 

Un aneddoto particolare che in questi mesi hai vissuto in ospedale?

“Ci sono tante storie che mi sono rimaste dentro, nel bene e nel male. Ti racconto di quando abbiamo iniziato a far videochiamare a casa i pazienti coscienti: era emozionante come i pazienti stessi rassicurassero le famiglie, e non il contrario”.

Sei orgogliosa di quanto state facendo?

“Avrei preferito non vivere mai niente, purtroppo nella vita le cose accadono e dobbiamo accettarle. Abbiamo due modi per rispondere alle sfide: deprimerci o combattere, io ho intrapreso la seconda strada. Non è sempre stato facile, ci sono stati alti e bassi ma sono orgogliosa di quanto stiamo facendo. Possiamo sempre trasformare il brutto in qualcosa che dia speranza per il futuro. Faccio sempre questa metafora: nel 2017 sono stata a New York dove sorgevano le Torri Gemelle, ho visto le sculture con l’acqua che cadeva verso il basso. Mi sono emozionata, piansi. E’ stato bello trovarmi lì, in quel momento. C’era il museo con le varie testimonianze, ho interpretato tutto questo come il simbolo della rinascita: dalle macerie si può rinascere”.

Quale dovrebbe essere un simbolo della rinascita dal Covid?

“La politica dovrebbe riconoscere il ruolo centrale del sistema sanitario nazionale, si dovrebbero valorizzare tutti quei professionisti che stanno tenendo a galla questo paese. Ora l’importante è uscire da questa situazione, ma non sarà facile: quest’estate non dovevamo tornare a vivere normalmente. Ora possiamo cercare di diventare migliori di prima”. 

Cosa ti aspetti dal futuro?

“Per alcuni individui è facile evadere da una dura realtà: i dati di morti in Italia e nel mondo sono reali, non possiamo sottovalutare tutto questo. Non è rispettoso. Poi un altro aspetto, dobbiamo muoverci insieme sulla stessa linea: economia e sanità devono correre insieme, questo concetto deve essere compreso. Senza la tutela della saluta non ci può essere economia. Non mi sarei mai aspettata di incontrare dei negazionisti del virus: vederli manifestare, vedere persone che non credono al virus è irrispettoso. Alcune cose si potevano evitare”.

 

 

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