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Giallo Dozza: la squadra di rugby bolognese che gioca solo partite in casa

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Bologna Rugby Club


Intervista a Orazio Perini, responsabile tecnico del Giallo Dozza: la squadra di rugby bolognese che gioca solo partite in casa

Questo weekend si rinnova l’appuntamento settimanale con il rugby bolognese. Bologna Rugby Club sarà impegnato nel confronto contro il Modena, per il match valido per il campionato di Serie B. Ma ieri, sabato 11 novembre, a pochi chilometri dal Centro Sportivo Bonori, si è giocata la partita di un’altra squadra bolognese. Il luogo è piuttosto suggestivo e la squadra gioca solo lì, senza poter fare trasferte.
Stiamo parlando del Giallo Dozza, la squadra di rugby formata dai detenuti del carcere Rocco D’Amato, per tutti la Dozza, prendendo il nome dal luogo dove è stato costruito . Per sapere qualcosa di più su questa realtà non convenzionale abbiamo avuto la possibilità di intervistare il responsabile tecnico del Giallo Dozza, Orazio Perini.

Come e quando è nato il progetto?

Nel 2013 l’allora e attuale presidente del Bologna Rugby, Francesco Paolini, ebbe modo di incontrare il tecnico Walter Rista (5 caps con l’Italia da giocatore, ndr) che stava attuando questo progetto nel carcere di Torino. Nacque così l’idea di replicare il progetto anche qui a Bologna e Paolini mise in atto tutto il meccanismo istituzionale che comporta il dialogo tra la Federazione e il Provveditorato (“Ci iscrivemmo al campionato di quella che allora era la Serie C2 per la stagione 2014/15 e da allora non abbiamo mai mancato un’iscrizione ad un campionato”).

Perché il nome Giallo Dozza?

Il nome Giallo Dozza deriva da una felice intuizione di Carlo Castagnola, dirigente anch’egli del Bologna Rugby. Nel rugby quando ricevi un’ammonizione devi stare dieci minuti in panchina a riflettere su ciò che hai fatto per poi ritornare in campo. L’analogia con lo scopo rieducativo del percorso penitenziario è evidente. Per un certo periodo di tempo i ragazzi devono restare in questa situazione per capire dove hanno sbagliato per poi tornare alla propria vita cercando di evitare di ripetere lo stesso errore.

Da chi è formato l’organigramma societario?

Siamo un gruppo di persone molto ampio, ma siamo principalmente in quattro che ci muoviamo di solito. Matteo Carrasiti, il nostro presidente, che è uno degli amministratori di Illumia, nostro sponsor. Francesco Dell’Area che, oltre ad essere uno dei soci fondatori, è il nostro team manager. Mia moglie, Marina Barbi, che si occupa di tutti rapporti con i giocatori e dell’organizzazione del terzo tempo. Il sottoscritto che ricopre il ruolo di responsabile tecnico. E poi ovviamente c’è l’allenatore, Fiorenzo Guermandi.

In cosa consiste il ruolo di responsabile tecnico in una realtà come il Giallo Dozza?
Mi occupo della parte logistica. Cioè tutto quello che concerne gli acquisti del materiale e di tutto ciò che può essere funzionale all’attività sportiva. Ma nel caso di questa squadra spesso mi trovo a dover recuperare anche capi d’abbigliamento per la vita comune. Perché, ovviamente, non si tratta solo di seguire una squadra sportiva, ma un gruppo di ragazzi che vivono in condizioni spesso al limite dell’umano. Un conto è privarli della libertà, un altro discorso è privarli di condizioni di vita dignitose.

Com’è il rapporto tra i ragazzi e l’allenatore?

Fiorenzo è una persona incredibile. Oltre a trascinare i giocatori col suo carisma, riesce ad instaurare anche un rapporto umano molto forte grazie alla sua schiettezza. Di solito i ragazzi sono abituati a confrontarsi con persone non sempre trasparenti, invece Fiorenzo dice quello che pensa e per questo è molto rispettato.

Come funziona il terzo tempo in una realtà come questa?

Chi ha giocato a rugby sa quanto sia importante e farlo in carcere è certamente non semplice, ma fondamentale. Se non ci fosse la partita finirebbe con il fischio dell’arbitro e non ci sarebbe tutto quello scambio di parole e di esperienze che permette di dimenticare, oltre che le ostilità della partita, anche il luogo in cui si è.

Chi sono i vostri tifosi?

Ovviamente non è possibile entrare all’interno della struttura con facilità, sono necessari dei permessi che hanno bisogno di tempi tecnici non indifferenti. Gli unici spettatori che abbiamo e che ci seguono quasi sempre sono gli universitari. I ragazzi della squadra vivono tutti nella stessa sezione insieme ai detenuti che fanno l’università.

Come fa un detenuto ad entrare a far parte della squadra?

Tutto nasce da una domanda che deve fare personalmente il detenuto per entrare nel progetto. Una volta vagliata da tutti gli organi competenti, il ragazzo fa tre settimane di prova in cui viene visionato da Fiorenzo per capire la sua attitudine a uno sport di contatto e di lotta come il rugby. Dopo questo periodo, se si conviene da ambo le parti che si può fare, comincia a giocare e a fare il suo percorso.

A quali difficoltà i membri della squadra vanno incontro?

La più grande difficoltà è che, finito l’allenamento, i ragazzi vivono insieme. Quindi tutte le vicissitudini e le tensioni che trovano in campo si riversano nella loro vita di tutti i giorni. Inoltre spesso i giocatori sono di nazionalità diverse quindi la barriera linguistica è una problematica che viene esacerbata dalle situazioni di gioco.

Quali sono i punti fermi che formano il regolamento interno della squadra?

Indubbiamente il rispetto dell’arbitro su tutti. L’obiettivo del progetto è imparare a rispettare le regole e l’arbitro rappresenta coloro che nella vita di tutti i giorni si fanno garanti dell’ordine pubblico. Poi il rispetto dei compagni di squadra e della serenità di andare al passo anche dei meno bravi. Regole che appartengono al mondo del rugby, ma che se rapportate a questo contesto diventano il credo fondamentale del progetto.

Qual è la più grande soddisfazione che vi siete tolti?

La media nazionale dice che statisticamente sette ragazzi su dieci che entrano in carcere poi ci rientrano. Dalla nostra squadra sono passati centinaia di giocatori, ma quelli che sono tornati si contano sulle dita d’una mano. Questa non può che essere considerata la nostra vittoria più grande.

Quale potrebbe essere un episodio che vi ha fatto capire quanto è importante quello che state facendo?
Indubbiamente il caso più emblematico è quello di Donald, un ragazzo che ha giocato con noi i primi anni e poi ha smesso per motivi di lavoro, pur non smettendo di venire a vedere le partite. Ma dopo aver lasciato il campo si è messo a studiare agraria e nello specifico paesaggistica. L’anno scorso ha dibattuto la sua tesi nell’aula universitaria di Imola e ha invitato me e mia moglie alla discussione. La tesi era incentrata sulla conversione del campo di calcio del carcere in campo da rugby con la realizzazione di un’area per il terzo tempo e di un’area dedita all’ingresso dei parenti per poter vedere la partita. Personalmente è stata una soddisfazione enorme. Sta prendendo un’altra laurea e ciò dimostra che è uno di quelli che ha pensato che gli anni che passerà dentro devono servirgli per cambiare in meglio, per usare il suo tempo in carcere in maniera utile e per diventare una persona migliore. Se altri ragazzi decidessero di seguire il suo esempio, il carcere può dimostrare di avere davvero una sua finalità.

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