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Fortitudo: Milano-Bologna, una cosa sola

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J è un ragazzo cresciuto appena fuori le mura bolognesi, passando i pomeriggi a rincorrere un pallone tra l’erba dei campi di calcio ed il parquet di quelli di basket. E’ un ragazzino come tanti altri suoi coetanei, ma se buon sangue non mente, il suo destino è irrimediabilmente segnato verso la Fossa dei Leoni, di cui è membro, ancorché inconsapevole, dall’istante stesso in cui si è affacciato al mondo.
Se i primi successi dell’epopea fortitudina targata Giorgio Seragnoli sono, per ragioni anagrafiche, ridotti ad istantanee in chiaroscuro archiviate nella memoria di un bambino di 10 anni, nell’estate 2004 J ha invece da poco compiuto 15 anni, un’età sufficiente perché quel sangue biancoblu che gli scorre da sempre nelle vene cominci a pulsare di forza propria e pienamente consapevole.
Sulle maglie dell’Aquila compare lo sponsor Climamio dopo un triennio in cui in tutte le scuole bolognesi si era registrato un picco di consumi di succhi di frutta. Il roster assemblato dal GM Zoran Savic appare ancora una volta competitivo nonostante la dolorosa partenza di Carlos Delfino, ma negli ambienti biancoblu, pur privati dal confronto con i desaparecidos cugini cittadini, l’entusiasmo generato dallo storico primo scudetto si è ormai assopito sotto le frustrazioni di altre quattro finali perse: la fame di vittorie del popolo fortitudino è insomma tornata ai massimi storici.
Il primo giorno di apertura della campagna abbonamenti, J si fionda con un amico a sottoscrivere quella tessera che l’avrebbe accompagnato “su e giù per l’Italia” per tutta la stagione. Tra le iniziative collaterali proposte dalla società, al giovane J viene richiesto di scegliere uno dei giocatori del roster nell’ambito di un concorso per vincere una divisa da gioco ufficiale: nell’incredulità di chi lo circonda, la scelta di J ricade su tal Rubén Enrique Douglas, 24enne guardia con doppia nazionalità americana e panamense, reduce da un’ottima stagione con i greci del Panionios ma con poco pedigree internazionale e – in un’epoca in cui ancora internet non è accessibile dalla tasca dei pantaloni di chiunque – generalmente avvolto da un certo mistero.
Fatalità o ingenua curiosità, nessuno può saperlo, ma a posteriori si rivelerà una scelta quanto mai profetica. Solo tempo dopo, l’onesto J ammetterà che di quel giocatore non sapeva assolutamente nulla, credendolo un tiratore bianco e mancino: non esattamente l’identikit del domatore di pitoni from Pasadena, California, che avrebbe indossato la maglia n. 20 della Fortitudo Climamio Bologna.
La prima partita stagionale vede l’Aquila in trasferta sul campo della Vertical Vision Cantù, dove J assiste ad una disfatta in cui la Fortitudo tira con 1/25 da tre punti e Douglas chiude con 0/5 dalla lunga distanza, rendendo oltremodo impronosticabile che proprio quel giocatore avrebbe segnato l’epilogo della stagione da ben oltre l’arco dei 6.25. Nonostante ciò, dentro J c’è qualcosa che gli dice di non aver sbagliato la sua scelta.
Il resto della regular season scivola via tra alti e bassi ma J, battezzato fortitudino, sa perfettamente che anche quest’anno ci sarà da soffrire: e infatti, proprio alla vigilia delle semifinali playoff, un grave infortunio chiude anzitempo il campionato di Milos Vujanic, privando la F del suo miglior giocatore.
La squadra raggiunge comunque la sesta finale consecutiva e la sorpresa più grande forse è quella di non ritrovarsi di fronte ancora una volta la capolista Benetton Treviso, eliminata dalla prima versione dell’Olimpia Milano targata Armani Jeans, che a colpi di milioni e nomi di grido – benché non più giovanissimi – sta tentando di rilanciare nel capoluogo meneghino uno sport ormai da un decennio quasi del tutto oscurato dal calcio.
Il 16 giugno 2005 successivo, J è al MediolanumForum di Assago per assistere a quella gara 4 che regalerà alla storia uno degli epiloghi più incredibili di sempre, confermando come la pallacanestro sia uno sport, da praticare o solo ammirare, davvero ineguagliabile: la preghiera lanciata in sospensione da Douglas sulla testa di Dante Calabria, dopo 2-3-4 (troppi!) secondi palleggiati da Basile, proprio quando prendeva il sopravvento la sensazione di non riuscire nemmeno a scoccare quel tiro… e poi il tempo che improvvisamente si ferma, rimane sospeso come per effetto di un trucco cinematografico.
Il nostro J in quel momento viene letteralmente sollevato e messo a cavalcioni sulla balaustra che delimita il settore ospiti: sta piangendo di rotto, un pianto spontaneo e confuso, tutta la tensione accumulata gli esplode dentro senza ancora sapere se poter urlare al mondo gioia o dolore.
 
Affianco a J – anche se distante oltre 200 km – c’è un suo grande amico di poco più anziano, che qualche anno dopo lo affiancherà stabilmente sui gradoni della curva Nannetti, ma che, quel giorno, non ha ancora conosciuto: M a Milano non è potuto andare e già dal pomeriggio è schiacciato sul bancone dello stipatissimo Madigan’s Pub di via delle Lame, indossando una maglietta blu Nike che a molti potrà sembrare una t-shirt qualsiasi, ma che in realtà rappresenta un vero e proprio cimelio. M, infatti, a qualche anno di distanza, è tornato a frequentare la palestra Furla e, déjà-vù di un passato ormai lontano, ha avuto occasione di ammirare alcuni allenamenti della prima squadra guidata da coach Repesa. Al termine di uno di questi, qualche mese prima, sfruttando una prontezza di riflessi che da bambino mai avrebbe avuto, si è riuscito ad impadronire di una t-shirt blu sudata fradicia ed abbandonata su una panchina: una maglia come tante, acquistabile per pochi soldi in qualsiasi negozio di abbigliamento sportivo, ma elevata ad inestimabile tesoro da colui che l’aveva poco prima indossata.
Per pudore, quella maglia rimarrà nascosta nella borsa di M per svariati giorni, ma quel 16 giugno l’ha indosso, anche se il suo precedente possessore quella partita a Milano non la sta giocando: un paio di mesi prima è stato messo fuori squadra, così spezzando centinaia di cuori che avevamo visceralmente amato quel giocatore, dapprima segretamente quando ancora calcava i campi dell’alta Lombardia, poi senza più freni inibitori quando era sbarcato all’ombra delle Due Torri.
 
I due amici trattengono il fiato all’unisono in quegli eterni istanti in cui, inevitabilmente, cominciano a balenare anche i più insensati pensieri, sul genere “no, non vogliono proprio farcelo vincere…”.
Ma quando l’instant replay e le braccia protese dell’arbitro Paternicò assegnano lo scudetto alla F, il tempo riparte come se un cronometro invisibile avesse riavvolto le lancette al tiro di Douglas: J si paracaduta in campo, dribblando stewards ed ostacoli strutturali, senza rendersi conto di star ancora piangendo: M, per quanto non propriamente esile, si ritrova sbalzato nel lato opposto del locale, con la sua preziosissima t-shirt blu irrimediabilmente sommersa da ondate di birra, sudore ed altri liquidi che piovono ovunque. Il cimelio non si riprenderà mai più da quella sera, ma ormai non ha più importanza.
I due amici non riusciranno ad incontrarsi nemmeno alcune ore dopo in Piazza Azzarita, quando ad accogliere il pullman dei neocampioni ci saranno migliaia di persone ed altre ancora si aggiungeranno nella processione per le strade del centro scortando il camioncino scoperto su cui vengono portati in trionfo i giocatori. Giunti in Piazza Maggiore, il popolo biancoblu estasiato assiste ad un cerimoniale tra il sacro e il pagano: lo storico capitano Claudio “Pilu” Pilutti, in un solenne passaggio di testimone, consegna a capitan Basile la maglia F con cui verrà avvolto il Nettuno – e compare anche una sagoma di coniglio bianconero, perché un po’ di goliardia a queste latitudini non può mai mancare.
Nemmeno M e J si conosceranno ancora in occasione della festa scudetto organizzata qualche giorno dopo al PalaDozza, quando a Douglas, ovviamente il più atteso di tutti, viene chiesto come ha fatto a realizzare quel canestro e la sua telegrafica risposta – “Black Power” – lascia per un attimo interdetta l’intera platea, prima di esplodere in applausi e cori come da copione.
Tutti, ma non il giovane J. Lui d’altra parte lo sapeva già: quello era la sua scelta, il suo giocatore.

 

 

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