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Calcio

I PROTAGONISTI DEL MONDIALE (8^ puntata): Inghilterra 1966

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Prosegue la “Storia breve dei Mondiali”: quest’oggi l’edizione del 1966, che vede il football tornare dove è nato e l’affermazione, per la prima e per ora ultima volta, dei Leoni d’Inghilterra.

Le precedenti puntate:

– URUGUAY 1930
– ITALIA 1934
– FRANCIA 1938
– BRASILE 1950
– SVIZZERA 1954 
– SVEZIA 1958 
– CILE 1962


#IL MONDIALE

La Coppa del Mondo del 1966 fu assegnata all’Inghilterra nel 1963, esattamente nel centenario della nascita della Football  Association, la prima federazione calcistica della storia. Promotore dell’iniziativa fu il Presidente della FIFA in carica, Sir Stanley Rous, anch’egli inglese: questa assegnazione macchierà per sempre, nell’immaginario collettivo, questa edizione dei Mondiali. L’Inghilterra vinse tra le polemiche, pur schierando la miglior formazione mai avuta: autore dell’impresa fu il tecnico Alf Ramsey, che nel 1963 prese in mano la Nazionale tagliando fuori ogni commissione tecnica e dichiarando spavaldamente che i suoi uomini sarebbero stati i futuri campioni. Furono i primi Mondiali ad avere una mascotte, il leone Willie.


Grandi assenti furono Jugoslavia, Belgio e le finaliste degli ultimi due Mondiali, Svezia e Cecoslovacchia. Il torneo fu povero di reti e spettacolo ma non di sorprese: l’Italia uscì al primo turno nella sorpresa generale, sconfitta nella gara decisiva dalla rivelazione Corea del Nord, e così fu anche per il Brasile campione in carica, battuto a sorpresa dal Portogallo di Eusebio, che sarebbe arrivato fino in semifinale. Traguardo raggiunto anche dall’URSS campione d’Europa nel 1960 e finalista nel 1964, piegata solo dalla fortissima Germania Ovest. La finale vide proprio i tedeschi affrontare i padroni di casa inglesi, in una delle finali più controverse della storia che vide il trionfo dei “Leoni di Sua Maestà” grazie ad una tripletta di Hurst.
Finisce 4 a 2, con la terza rete inglese lungamente contestata dai tedeschi in quanto il tiro del centravanti albionico, dopo aver colto la traversa, toccò la linea e rimbalzò fuori, venendo però convalidato dall’arbitro svizzero Dienst su indicazione del guardalinee sovietico Bakhramov. Tale episodio fu forse il più controverso nella storia dei Mondiali, tanto che ci vollero decenni per scoprire se la palla avesse o no varcato la linea di porta: nel 1995 proprio degli inglesi dell’Università di Oxford dimostreranno, grazie all’aiuto di tecnologie ai tempi sconosciute, che la palla non era entrata.
Un errore comprensibile quindi, ma che di fatto consegnò la Coppa Rimet nelle mani di Bobby Charlton e compagni.


GLI EROI
L’Inghilterra vinse tra le controversie ma, come detto, schierando una signora squadra: in porta Gordon Banks, per molti il miglior portiere inglese di sempre, in difesa il fortissimo Bobby Moore ed il valido Jack Charlton. In mediana spiccava Nobby Stiles, grintoso mediano dal gioco molto aggressivo, sulla trequarti Bobby Charlton e in attacco la rivelazione Geoff Hurst, che prese il posto della talentuosa “testa calda” Jimmy Greaves.


Non da meno era la Germania, che poteva contare su una difesa di ferro composta da Schnellinger e da un giovanissimo Beckenbauer e in attacco aveva un duo dal talento infinito formato da Helmut Haller e Uwe Seeler.
Attacco fenomenale anche quello del Portogallo, che poté contare sui gol di Torres e soprattutto su quelli di Eusebio, capocannoniere del torneo con 9 reti. L’URSS schierava il miglior portiere al mondo, Lev Yashin, e in attacco la coppia da 7 reti (4+3) composta da Porkujan e Malofeev.


Talentuosa era anche l’Italia, tuttavia eliminata precocemente per alcuni errori tattici e di supponenza: un peccato, perché gente come Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bulgarelli, Meroni, Sandro Mazzola e Rivera avrebbe potuto davvero ben figurare. Autore dell’eliminazione degli azzurri fu il nordcoreano Pak Doo-Ik, che per secoli verrà descritto erroneamente dall’immaginario popolare come dentista di professione: la verità è che gli asiatici si erano allenati molto duramente prima del torneo e per corsa e resistenza non erano affatto dei dilettanti, come dimostra il fatto che furono eliminati con molta fatica solo dal Portogallo di Eusebio e dopo essere stati in vantaggio addirittura per 3 a 0.


Deludente fu anche, come detto, il Brasile: alle prese con un complicato ricambio generazionale, i campioni in carica furono eliminati subito nonostante potessero contare su Pelé (che però presto s’infortunò) perché il resto della squadra si divideva tra anziani ormai ex-campioni (Gilmar, Bellini, Djalma Santos, Zito, Garrincha) e futuri campioni (Tostao, Jairzinho) ancora troppo acerbi. Altre stelle sparse? Ferenc Bene dell’Ungheria, autore di 4 reti in 4 gare; il bulgaro Asparuhov, unica stella della sua mediocre nazionale; gli spagnoli Del Sol, Luis Suarez e Peirò, mai fortunati con la maglia della Nazionale; il portiere del Messico Carbajal, al suo 5° Mondiale consecutivo; gli argentini Rattìn e Artime; gli urugaiani Mazurkiewicz e Pablo Forlàn, padre di Diego, futuro campione della ‘Celeste’.


L’EPISODIO 
Come da tradizione, la Coppa Rimet veniva messa a disposizione degli organizzatori del Mondiale dai campioni in carica affinché venisse esposta al pubblico. La mattina del 20 marzo del 1966, dunque con l’inizio del torneo distante solo qualche mese, la Coppa sparì dalla Central Hall di Westminster dove era custodita. Nel Paese fu il panico, e mentre polizia e Scotland Yard battevano ogni pista la Football Association corse ai ripari facendo costruire una copia identica in tutto e per tutto alla Coppa che era passata dalle mani di tanti campioni superando anche una Guerra Mondiale.
Chi aveva rubato la Coppa aveva mirato esattamente a questa, ignorando collezioni di francobolli adiacenti dal valore di molto superiore: l’autore del furto non fu mai scoperto, e mentre i giorni passavano l’Inghilterra sprofondava nella vergogna. Dov’era finita la Coppa Rimet?
Il mistero viene risolto da un eroe inaspettato, un cane: il bastardino Pickles, che fiutò qualcosa in un cespuglio a sud di Londra mentre faceva il quotidiano giretto con il padrone, David Corbett.


Era la Coppa rubata, avvolta alla bell’e meglio in alcuni quotidiani. Per questo episodio il cagnolino divenne una celebrità nazionale, assistendo dal vivo a numerose partite della manifestazione che aveva, in effetti, salvato. La copia ordinata dalla FA fu esposta nel museo della FIFA, mentre Pickles girò addirittura un film (!) prima di morire appena un anno più tardi, strangolato dal suo stesso guinzaglio dopo essere sfuggito al padrone nel tentativo di inseguire un gatto. Il suo collare è anch’esso conservato nel museo della FIFA. 

IL PROTAGONISTA
Immaginate di essere un ragazzo, un giovane calciatore dal talento immenso. Immaginate di giocare nel più forte club inglese e di vedere, poco più che ventenni, morire con i vostri stessi occhi quei campioni che erano i vostri compagni, in un tragico incidente aereo. Immaginate di sopravvivere, voi e pochi altri, e da lì riformare la squadra mattone su mattone. E dieci anni dopo conquistare, prima volta per un team inglese, la Coppa dei Campioni.
Questa è stata la vita di Robert Charlton, per tutti Bobby: talento precoce scoperto da Matt Busby durante una partita tra scuole ed entrato nel fortissimo Manchester United appena quindicenne. L’esordio in giovane età, l’esplosione, con 10 gol in 14 gare, appena maggiorenne.
Charlton era il giovane talento di quella squadra fortissima che perse gran parte dei suoi membri nello schianto aereo di Monaco di Baviera nel 1958. I “Red Devils” tornavano da una vittoriosa trasferta europea, nevicava, un errore di valutazione del pilota e lo schianto fatale. Sopravvissero in pochi, Charlton fu uno di questi, un altro fu l’allenatore Busby.
I due ricostruirono il Manchester United da quel volo spezzato: il primo in campo, diventando ogni anno più forte, più maturo, un vero capitano, il secondo dalla panchina con il suo eccezionale fiuto per i giovani e la straordinaria capacità di trarre il meglio da ogni giocatore. Ci vollero sei stagioni per tornare in alto in campionato, ma Bobby Charlton non poteva accontentarsi di questo. C’erano i Mondiali alle porte, era giunto il momento di dimostrare il mondo che i “Maestri” non erano un bluff: era giunto il suo momento.
A 29 anni, nel pieno della forma, Bobby Charlton aveva pochi eguali al mondo. Scatto da centometrista, fiato da maratoneta, copriva tutto il campo dal centrocampo all’attacco grazie ad un enorme intelligenza tattica e ad un carisma innato che rendeva automatico per i compagni affidargli il pallone. E poi? Una potenza fisica sorprendente per uno alto appena 173 centimetri, un dribbling portentoso frutto di anni e anni di costante allenamento, la capacità di piazzare assist perfetti e quella di sparare in porta implacabilmente da qualsiasi distanza. Un tiro forte e preciso che gli fa insaccare il pallone oltre 200 volte con la maglia dello United e quasi cinquanta (49) con la maglia dell’Inghilterra.
La Nazionale si plasma intorno a lui: è un ottima squadra, per carità, ma è Charlton il fuoriclasse, l’uomo che segna la differenza. E’ lui a sradicare il pallone dai piedi di un malcapitato messicano e a involarsi verso la porta rivale, trafiggendo Carbajal e sbloccando una squadra che aveva deluso pareggiando 0 a 0 la prima gara e che si avviava a ripetere il copione alla seconda in quella Coppa Rimet del ’66. E’ ancora lui a stroncare la rivelazione-Portogallo di Eusebio, lo fa con due reti che spianano la strada ai Leoni verso la finale. Avversari? I tedeschi, con un giovane ventenne di belle speranze che lo marca e con il quale compie uno dei duelli più belli di sempre. Quel ragazzo è Beckenbauer, riesce anche a limitarlo, ma il destino è dalla parte degli inglesi, deve esserlo dopo anni di batoste. Deve esserlo per Bobby Charlton, che per scrivere la storia è sfuggito alla morte. E infatti è così, è lui a ricevere la Coppa dalla Regina e ad alzarla per i tifosi ubriachi come sempre, ma stavolta (anche) di gioia.


Vince il Pallone d’Oro, quell’anno. Che non avrà la classe di Matthews, ma in campo sa fare tutto. E non si ferma mai, forte di una volontà temprata dal dolore di aver perso i compagni tanto amati. Ha giurato di vincere per loro. Un Mondiale potrebbe bastare. Un Pallone d’Oro? Pure. E invece no, manca ancora qualcosa. Qualcosa firmato “rosso United”.
E’ il 1968 quando il Manchester United giunge in finale di Coppa dei Campioni: sono passati esattamente dieci anni dallo schianto di Monaco, il ragazzo si è fatto uomo, campione. Lo dimostra, annichilendo con due reti il Benfica di (ancora) Eusebio. 4 a 1, il Manchester United è la prima squadra inglese ad alzare la Coppa dei Campioni. Un trionfo, l’ultimo, quel che serviva.
Lascia lo United a 37 anni, dopo 758 gare giocate con la maglia dei Red Devils, dopo aver vinto tutto. Eroe vissuto due volte, eroe per sempre: perché per quanto il calcio inglese abbia avuto eroi prima e dopo di lui, ci sarà sempre e solo un Bobby Charlton. 

 

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