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Il Punto sul Bologna – Ognuno ha il proprio nome

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Tifare è un atto di egoismo.  Non sembra, non ci sembra, ma così è.  Ci abbracciamo per un gol, sì, è vero. Come se fossimo un’unità. Ma quell’abbraccio è semplicemente un atto fisico, la necessità di un corpo che, per un attimo, si ribella a questa costante richiesta di solitudine. Niente di diverso. Può sembrare un discorso duro, forse triste. Ma abbiamo dati chiari che confermano ciò. Dati e atti che reiteriamo nel tempo e che confermano questa teoria. Un esempio su tutti; in ordine cronologico, l’ultimo capitato. Il Bologna conquista un punto importante contro la squadra più alta in classifica; la più alta perché quei 14 punti che la Roma ha di distacco dal Napoli e i 18 dalla Juventus ci raccontano che queste ultime due sono squadre che fanno parte di un altro pianeta rispetto al campionato che le altre diciotto stanno disputando. Dunque, ribadisco, un gran punto. Equivalente a quello precedente conquistato, all’Olimpico, a danno di una delle più belle rivelazioni del campionato: la Lazio di Simone Inzaghi e Igli Tare.
Stante questa situazione, ti aspetti la felicità o, almeno, la serenità di un popolo, dell’intera gente di fede rossoblù. Insomma, il piacere condiviso di una famiglia. E invece no, siamo egoisti. In realtà il Bologna è solo una scusa, una scusa per esprimere il nostro malessere. E allora ecco che, come solo un egoista può fare, ce ne sbattiamo altamente del nostro fratello seduto a fianco che gioisce o, almeno, è sereno. Non ce ne frega assolutamente nulla: diventiamo più importanti noi. Più importante di chi ci circonda e che tifa la nostra stessa squadra. Vogliamo Destro in campo o Destro in panchina. Donadoni che resta o Donadoni che va via. Ma anche Baggio in campo o Baggio in panchina. O Gazzoni insultato come Guaraldi, come se potessero trovarsi nella stessa proposizione. E ci stupiamo pure se un Guidolin qualunque ci considera tutti uguali, tutti associati a un unico escremento. Eppure, siamo noi che chiamiamo “mentecatti” gli altri tifosi che non la pensano come noi. E se un giorno dovessimo cominciare a vincere? Per quale motivo uno che è stato chiamato “mentecatto” dovrebbe abbracciare chi gli ha affibbiato quell’epiteto? Sarebbe ed è ipocrisia.
E alla fine, vittoria e sconfitta si rassomigliano se non siamo capaci a rispettare gli altri. Ma non solo gli “altri” distanti, perché un avversario è comunque un avversario, sportivamente parlando. Non mi riferisco a loro. Sto parlando degli “altri” vicini, gli stessi che comprano un biglietto o un abbonamento come noi. Gli stessi che vanno a vedere gli allenamenti a Casteldebole o i “cinni” della Primavera. Gli stessi che vanno allo Store a comprare i gadgets del nostro tifare. Gli stessi che si indignano come noi se un cinematografaro ci chiama minuzzaglia.
E così, capisco anche lo sbattimento dei ragazzi in transenna che provano a far cantare un intero stadio con una voce unica. Ma quella voce funziona solo nel “benessere”, anche se è proprio nei momenti più tesi che dovremmo sentirci più vicini, più coesi.
“Bolognesi siamo noi! Ma chi…” et cetera et cetera, non funziona più. Ognuno ha il proprio nome. Ognuno tifa solo se stesso. E mi sento più solo. Una solitudine triste e squallida.

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