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Che cos’è il Tour?

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Un serpentone d’asfalto che si inerpica sulla montagna.

Una miriade di puntini colorati che lo adornano.

Scritte nelle lingue più diverse sul selciato.

Bandiere di tutte le Nazioni e di tutte le regioni del mondo.

Distese di camper e di auto.

Tende che spuntano in ogni dove sui prati circostanti.

Gente seduta. Gente in piedi. Gente che “scrive la strada”. Gente che mangia o che beve sotto un tendone, al riparo dalla pioggia o dal sole. Gente che legge l’Equipe, o che gioca a carte, o a Petanque. O semplicemente discorre in qualche lingua: quella di Victor Hugo, di Shakerpeare, di Thomas Mann, di Cervantes, di Dante o di Erasmo, o in un misto di queste. Di ciclismo, certo. O di qualche altro sport, o di politica, o chissà.

Stanno lì. Per ore. Talvolta per giorni. Ingannano il tempo. Ingannano l’attesa che forse, a ben vedere, sarà la parte più bella del “tutto”.

Rumore di camion e di automobili che salgono per tutta la notte strombazzando lungo la strada, interrompendo il sonno di chi sta lì.

A volte vento. A volte pioggia battente.

Il Gran Giorno atteso da mesi, quello per cui avevi magari preso le ferie ad ottobre, quello per cui ti sei “sparato” centinaia, se non migliaia di chilometri, è finalmente arrivato. Ci si sveglia presto per non perderne neppure un istante. Si sta lì, a “respirare” la strada. Qualcuno piazza le proprie sedie sul selciato, come a segnare il proprio territorio, e guai a chi osa mettere in discussione quel predominio, mettendosi davanti a turbare quella che è, deve essere per forza, la migliore visione possibile di quel che accadrà.

Salgono le macchine dell’organizzazione. Quelle dei giornalisti accreditati. Tutta gente privilegiata che può permettersi il lusso di salire all’ultimo, che al traguardo avrà il proprio parcheggio riservato, e una visione privilegiata. Mica come chi è qui magari da giorni, e potrebbe bastare un avventore maleducato dell’ultimo momento per rovinare un appostamento durato ore. Salgono i ciclo amatori col fiatone e con la sofferenza scritta in faccia, ma anche col sorriso di chi sa che sta per compiere la propria “grande impresa”. Sale una miriade di gente a piedi, che non ha potuto arrivare sul posto nei giorni scorsi ed ha parcheggiato più sotto, pagando il prezzo di ore di camminata sotto il sole battente, o la pioggia a seconda dei casi.

Passa l’auto che annuncia la vendita dell’Equipe du jour o di qualche altro giornale, includendo nel prezzo qualche gadget (un cappellino o un ombrello i più gettonati).

Le partite a carte iniziate ieri ricominciano.

Come pure le conversazioni nelle lingue più diverse. O ne iniziano altre, tra una birra e l’altra, un bicchiere di vino e l’altro, un pastis e l’altro.

Passano i minuti. E poi le ore.

Tra una macchina e l’altra.

Una moto della Gendarmerie e l’altra.

“La Caravane!” grida qualcuno.

E tutti, grandi e piccini, si portano lungo la strada come se stesse per arrivare il Messia.

Macchine dalle forme più strane.

Ragazzi su di esse. Danzano. Sorridono. Fanno festa.

Lanciano cappellini. Lanciano magliette. Lanciano salamini. E bottigliette d’acqua. E brioches. E caramelle. E portachiavi. E campioni di detersivo. E qualsiasi cosa vi possa venire in mente.

I bambini, ma non solo loro, si scatenano alla caccia dei preziosi gadgets e poi li agitano e li mostrano agli altri come se fossero trofei. Qualcuno si scambia eventuali doppioni. Qualcun altro si prende addirittura a male parole. Aria di festa. Aria di gioia. Persino i Gendarmi sulle moto salutano e incitano la folla.

La fiera del gadget dura circa un’ora: un’ora di gioia, un’ora di danze, un’ora di grande festa.

Poi silenzio.

Ma dura poco.

Si ode il rumore di pale di elicottero, là in fondo alla valle.

La gente comincia ad agitarsi. Ad uscire dai camper nei quali era rifugiata. A passare da una parte all’altra della strada. A sventolare le proprie bandiere.

Gambe che tremano.

Palpitazioni di cuore.

Adrenalina.

Emozioni grandi. Belle. Sempre uguali da anni. Sempre diverse.

“Ils sont là-bas!” grida qualcuno indicando un punto preciso.

Ecco là. Tra le moto si vedono dei puntini colorati a cavallo delle loro bici.

Sono loro! Sono loro!

Gli Eroi.

I Nostri Eroi.

Quelli che aspettiamo da ore. Da giorni. Quelli per cui abbiamo preso le ferie. Quelli per cui abbiamo dormito qua, all’aperto, al freddo. Quelli per cui siamo stati per ore sotto il sole. Ad aspettare. Ad aspettare questo momento.

Si avvicinano, li vedo. Li sento, perché sale alto, altissimo il rumore della montagna. Un rumore che cresce secondo dopo secondo, fino a diventare un boato sovrumano. Che nessuna penna, o nessuna tastiera potrebbe mai raccontare. Che nessuna telecamera potrebbe mai trasmettere. Che se lo vuoi capire devi essere stato lì, almeno una volta. Una volta che ti porterai dentro per tutta la vita.

Eccoli. Sono loro! Sono qua davanti ai miei occhi. Non importa chi. SONO LORO!

C’è chi urla.

C’è chi applaude.

C’è chi scatta una foto. Magari per postarla subito dopo e per dire agli amici ed ai conoscenti “IO SONO QUI!”.

C’è chi corre loro dietro.

C’è chi continua a sventolare la bandiera.

C’è chi indica questo o quello, e dice al vicino: “Hai visto Tizio? E come stava bene Caio! Che brutta faccia Sempronio!”

C’è chi controlla i numeri sul giornale per capire chi siano quelli che passano.

C’è chi col cronometro prende i distacchi.

C’è anche chi è talmente ubriaco che se ne sta al riparo all’ombra fottendosene di quello che accade davanti ai suoi occhi. Mezzo mondo lo invidia per il fatto di essere lì, e lui se ne frega.

Poi c’è chi, passato il gruppetto dei migliori, prende le proprie cose e si allontana dalla strada. Come se avesse un appuntamento con non si sa bene con chi subito dopo.

Chi invece, la grande maggioranza, se ne sta lì, sulla strada. Ad applaudire tutti. Dal primo all’ultimo. Soprattutto gli ultimi, anche se non ne riconosci manco uno: ma sono le loro andature stentate, le loro facce sfatte dalla fatica, le loro imprecazioni quelle da applaudire di più.

Finché la voiture balai, la macchina chiamata “scopa” perché come una scopa raccoglie i ritardatari, non segnala che la corsa è davvero finita.

Qualcuno allora va alla ricerca di una qualche TV, per vedere l’arrivo, per non trovarsi nell’antipatica situazione che tra un po’ qualcuno, sapendo che ti trovi qui, ti chieda chi abbia vinto, e tu non sappia rispondere. E pensare che bastava starsene comodamente a casa davanti alla televisione e lo avresti saputo. O startene a lavorare in ufficio e cliccare su un qualsiasi sito. Invece sei qui da giorni, e rischi di non sapere neppure il nome del vincitore.

Ammesso che te ne freghi davvero qualcosa.

Passate le ammiraglie e le ultime moto dei gendarmi cala il silenzio.

Ognuno torna alla propria auto o al proprio camper.

Qualcuno decide di fermarsi qui, godersi la montagna tornata al suo originario silenzio, scendere l’indomani con calma.

La maggioranza invece si mette in viaggio.

Ore ed ore di coda e di traffico.

Chi per tornare alle proprie case.

Chi per portarsi sui luoghi dove passerà la tappa dell’indomani.

Per regalarsi una nuova attesa. Una nuova festa sulla strada. Nuove grandi, immense, meravigliose, emozioni. Un nuovo sogno.

Da portare con se per sempre.

A proposito. Il camper auto è pronto. Pieno di tutto ciò che occorre per passare giorni e notti sulla strada (sacchi a pelo, tavolino, sedie, carte da gioco, bandiere, vernice per tracciare scritte, cibo e bevande per sfamare un reggimento, macchina fotografica, carta e penna: mi pare proprio non manchi nulla).

Signori: tra pochi giorni si parte!

Da giovedì sarò sulla strada. Come da trentaquattro anni a questa parte.

A respirare il Tour.

A vivere il Tour.

Ad emozionarmi per il Tour.

Ed a condividere queste mie emozioni, questo mio sogno, con chi avrà la voglia e la pazienza di seguirmi sur la route.

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