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Pop&Sports – Il College Football, una realtà surreale per noi europei

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In queste due settimane mi sono ritrovato in quarantena, chiuso in casa con un mio amico (il presunto untore), giocatore e fanatico del football americano. Per passare il tempo ci siamo rivisti insieme, seppur separati, poiché in isolamento, Blue Mountaine State, una serie tv comico demenziale sul football americano al college. Come ben saprete, grazie anche al più conosciuto basket, in America il percorso per diventare professionisti nello sport è legata alla carriera scolastica. Più di preciso non tanto ai voti, ma ai traguardi raggiunti con la squadra della scuola. Dall’High School si passa, tramite borsa di studio, al College, per poi, se si è formidabili, essere scelti al Draft della massima serie. Riguardando quella serie tv, mi sono immerso in un mondo che a noi in Italia, abituati a vedere nello sport solo la massima serie, come poi il resto d’Europa, è sconosciuto: ovvero gli sport universitari. Il mondo che ho trovato a riguardo è veramente grande, surreale, da far illuminare gli occhi.

La National Collegiate Athletic Association, la NCAA, è una associazione che raggruppa 1200 scuole americane, organizzando programmi sportivi per università, con ogni tipo di sport: veri e propri campionati, in cui in palio c’è il prestigio dalle scuola, oltre alla possibilità per i giovani atleti (o per un ristretto numero di essi) di aggiudicarsi un contratto tra i professionisti. Oltre a ricevere un anello in oro e diamanti per la vincita del campionato, simile a quelli che in America vincono nelle massime serie. Il football universitario è considerato il pioniere di questo sport in America, poiché a metà dell’800, quando cominciarono i primi tornei di college football, la NFL non esisteva ancora e lo stesso gioco non era ancora perfettamente regolamentato. 

La Division I-A FBS (Football Bowl Subdivision) è il campionato che raggruppa le squadre più forti (esistono infatti altre tre divisioni minori) ed è un torneo che sta un livello sotto ai professionisti, alla NFL. Il kickoff della FBS anticipa tradizionalmente di una settimana quello NFL e conserva una tradizione del tutto particolare. Particolare, a partire dal complesso sistema con cui l’associazione mette in fila le varie scuole: in base ai risultati ottenuti dalle squadre, durante gli incontri viene stilata una graduatoria che stabilisce chi sono le 25 più forti. Il compito di stilare la classifica è affidato a un comitato che, misurando una serie di parametri non necessariamente oggettivi (il calendario, gli scontri diretti e anche gli infortuni), determina le quattro che andranno ai playoff. Un sistema, questo, che in Europa facciamo fatica a comprendere, ma che, pensandoci, rende più equa la scelta delle squadre che andranno alle finali. Basta avere un po’ di sbatto in più.

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Per quanto la gente può pensare che sport universitario è uguale a dilettantismo, non è così. Infondo l’ho già detto: sono solo ad un livello sotto ai professionisti. Sebbene i giocatori non vengano pagati, se non con borse di studio, non è così per una grossa fetta attorno al college di appartenenza della squadra: le migliori università pubbliche americane (Ucla, UC-Berkeley, Texas, Illinois, Michigan), ma anche molte private (Stanford, Usc), sono largamente finanziate, oltre che dalle industrie e dalle cospicue donazioni degli «alumni», tramite i ricavi economici che la squadra di football, e a volte quella di basket, gli assicurano ogni anno. Prendendo una università a caso, la University of Texas, la più ricca dopo Harvard, può contare su uno stadio di circa 82 mila posti, con biglietti “sold out” ogni domenica (40-50 dollari a biglietto), un contratto con la Nike (sponsor ufficiale di tutte le squadre sportive dell’ateneo, dal football al calcio), simile, in termini economici, a quello che Inter e Tottenham hanno con il colosso americano, oltre che contratti televisivi con Abc ed Espn per la diretta delle partite a diffusione nazionale, arrivando a sfondare, solo per quest’ultima, la barriera dei 30 milioni di telespettatori, e negozi del merchandise ufficiale da fare invidia al BFC Store. Grazie a questi introiti, si apre qui una piccola parentesi sugli stipendi milionari degli allenatori del college football, pagati più degli stessi rettori. Un fiume di dollari dove il rimanente, in uno dei paradossi che rendono inimitabile l’America, ovvero la forma vera e propria di capitalismo, sono devoluti per attrarre alcuni tra i migliori professori e ricercatori del paese, oltre alla costruzione di strutture inimmaginabili per qualsiasi università italiana. 

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Il paradosso, ripeto, è che questi soldi vanno d’appertutto, tranne che nelle tasche dei giocatori, i quali ricevono in massima, consentito dalla NCAA, delle borse di studio dalle università, ma rischiano multe e sospensioni anche solo per pochi spiccioli derivanti, a volte inconsapevolmente, dagli autografi su gadget e cimeli. Su questo l’associazione è molto rigorosa, oltre all’antidoping, poiché loro e solo loro rimangono strettamente ancorati allo status di amatori. Ma l’unica cosa dilettantistica che resta è forse quel tremolio, data dall’emozione innocente, durante le situazioni decisive.

Al di là di ogni ranking o regola, la sensazione che prevale guardando anche solo poche partite di NCAA è il clima di festa, tipico dello sport americano, che si traspira dagli spalti pieni. Il clima festoso è segno di come le persone, legate all’università o anche alla sola città (o Stato), siano attaccati veramente a questo sport, tifato e amato già dalle serie minori, rispetto alla NFL. 

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